Archivio mensile:Luglio 2025

Dante Alighieri: il fabbro fiorentino della lingua italiana

 

 

 

 

Il sommo Dante è stato, senza dubbio alcuno, avanti Francesco Petrarca, Pietro Bembo e Alessandro  Manzoni,  il  primo e più abile  fabbro della  nostra  lingua.  Proprio  a  lui, infatti, si  deve la forgiatura dei caratteri della parlata italiana. Voglio fornirvi degli incredibili dati numerici, tratti dalla mitica enciclopedia multimediale Treccani.it: è stato calcolato che il 90% 1del lessico fondamentale dell’italiano oggi in uso (cioè, il 90% delle 2000 parole più frequenti, che a loro volta costituiscono il 90% di tutto ciò che diciamo, leggiamo o scriviamo ogni giorno), sia già nella Divina Commedia. La sua opera principale è invero a tal punto vasta, da potersi considerare un’epitome dell’intero sapere antico e medievale. E’ così piena di parole, anche specialistiche, che Dante ha temprato, non solo la nostra parlata comune ma anche quelle tecniche. Lungo le tre cantiche del divino poema, infatti, sono molte le micro lingue presenti, come si definiscono, in linguistica, i lessici propri di una specifica disciplina, che, ad elencarli tutti, riempirei qualche pagina. Anche parolacce e bestemmie non mancano, appunto per non lasciar fuori nulla. Eccovi qualche esempio: Inferno, canto XVIII, vv. 133: “Taide è, la puttana che rispuose”; Inferno, canto XXI, v. 139: “Ed elli avea del cul fatto trombetta”; Inferno, canto XXV, vv. 1-3: “Al fine de le sue parole il ladro/ le mani alzò con amendue le fiche,/ gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”). Prima di Dante, il vocabolario italiano era alquanto povero ma dopo di lui, è diventato tra i più ricchi al mondo. Prima, si poteva parlare soltanto di poche cose. Dopo, di quasi tutto. Anzi, di tutto! 2Pose le basi, inoltre, affinché il latino, presto o tardi, fosse messo in soffitta, soprattutto come registro scritto per la trasmissione della cultura, tanto buono era stato, nella sua opera, il lavoro compiuto sul linguaggio. Grazie al sommo poeta e alla lingua della Divina Commedia, noi tutti, ancora oggi, possiamo affermare: “Il fiorentino è il dialetto che di più si avvicina all’italiano perfetto!”. Ciò è accaduto perché la vastissima diffusione del sublime poema, già immediatamente dopo la morte del suo Autore, veicolò anche la lingua con il quale era stato composto. Quest’ultima, infatti, funse da modello linguistico per tutti coloro che lo lessero. La Divina Commedia ha insegnato agli italiani a leggere e a scrivere correttamente, permettendo loro, dalle Alpi alla Sicilia, di comprendersi reciprocamente. Potrei, dunque, proclamare che l’Italia sia stata unita da Dante più di cinquecento anni prima di Garibaldi, Cavour e i Savoia, ma questa, per chi come me è meridionale, è un’altra storia!

 
 

 

 

 

Goffredo di Monmouth

L’invenzione della Britannia

 

 

 

 

Goffredo di Monmouth (circa 1100-1155) è un personaggio chiave per comprendere i meccanismi attraverso cui la letteratura medievale ha contribuito a costruire identità politiche, mitologie nazionali e strutture narrative di lungo corso. Autore colto, probabilmente di origine gallese, e parte della cultura clericale normanna che dominava l’Inghilterra dopo la conquista del 1066, operò in un contesto di forti tensioni culturali: tra tradizione celtica e potere normanno, tra oralità autoctona e scrittura latina, tra storia e leggenda.
L’opera che lo ha reso celebre, Historia Regum Britanniae (Storia dei re della Britannia), è un testo complesso, che si finge cronaca storica ma è, nei fatti, una narrazione epico-leggendaria. Scritto in latino attorno al 1136, copre un arco temporale vastissimo, dalla mitica fondazione dell’isola da parte di Bruto, discendente di Enea, fino all’arrivo dei Sassoni e al declino del potere britannico.
Goffredo sostiene di aver tradotto un antico manoscritto in lingua britannica, che gli sarebbe stato affidato da un certo Walter, arcidiacono di Oxford. È molto probabile che questo non sia mai esistito e che si tratti di un espediente retorico per conferire autorità e legittimità alla sua narrazione. Tale elemento, però, è cruciale: l’opera si presenta come tradizione ma è in realtà costruzione, un’invenzione che si maschera da riscoperta.


Il racconto vero e proprio comincia con l’eroe troiano Bruto, pronipote di Enea, il quale, esiliato e guidato dalla dea Diana, giunge in un’isola abitata solo da giganti. Dopo averli sconfitti, fonda una nuova città sulle rive del Tamigi: Troia Nova, destinata a diventare Londra. L’isola, inizialmente chiamata Albion, viene ribattezzata Gran Bretagna in suo onore. Alla morte di Bruto, i suoi tre figli si dividono il regno: Locrino ottiene Loegria (Inghilterra), Kamber la Kambria (Galles) e Albanactus l’Alba (Scozia). Il racconto procede con una rapida carrellata di discendenti, tra cui Bladud, che pratica la magia e muore tentando di volare. Segue la storia di re Leir, che decide di spartire il regno tra le tre figlie: Goneril, Regan e Cordelia. Le prime due, lusinghiere, ricevono le terre; Cordelia, sincera e sobria nelle parole, viene diseredata. Goneril e Regan tradiscono il padre, che finisce esiliato. Pentito, Leir trova rifugio presso Cordelia, ora regina dei Franchi. Con il sostegno di Aganippus, marito di Cordelia, Leir riconquista il trono, regna altri tre anni e muore. Cordelia sale al trono ma viene rovesciata dai nipoti Margano e Cunedagio, che si dividono il regno prima di entrare in conflitto. Cunedagio prevale e unifica il potere. La storia prosegue con lotte dinastiche, tradimenti e guerre civili. Il re Gorboduc lascia due figli, Ferrex e Porrex, che si uccidono a vicenda. Ne segue una guerra intestina che porta alla divisione del potere. Da questo caos viene fuori Dunvallo Molmuzio, re di Cornovaglia, che sconfigge gli altri pretendenti, unifica l’isola e istituisce le “leggi mulmotine”, ancora celebri tra gli inglesi. Dopo di lui, i figli Belino e Brennio combattono una guerra civile prima di riconciliarsi grazie alla madre. Insieme saccheggiano Roma; Brennio rimane in Italia, Belino torna a governare la Gran Bretagna. Il regno passa poi a re Lud. Alla sua morte, il fratello Cassivellauno governa in vece dei nipoti ancora minori, nominando Androgeus duca di Kent e Trinovantum, e Tenvantius duca di Cornovaglia. Cassivellauno affronta l’invasione di Giulio Cesare, che tenta per due volte di sottomettere la Gran Bretagna ma viene respinto. Dopo un conflitto interno tra Cassivellauno e Androgeus, quest’ultimo si allea con Cesare, che invade di nuovo. Alla fine, Cassivellauno si arrende e firma la pace. Gli succede il nipote Tenvantius, padre di Cunobelino, a sua volta padre di Guiderio. Quest’ultimo rifiuta di sottomettersi a Claudio e viene ucciso. Suo fratello Arvirargo resiste, ma poi si arrende, ottenendo in sposa Genvissa, figlia dell’imperatore. Il governo dell’isola resta nelle mani britanniche, anche se sotto influenza romana. Segue una lunga sequenza di re, tra cui Lucio, il primo sovrano cristiano, e altri legati al potere romano. Quando i Romani si ritirano, i Britanni si ritrovano indifesi contro le invasioni di Pitti, scozzesi e danesi. In assenza di rinforzi, chiedono aiuto al re di Bretagna (Armorica), che invia suo fratello Costantino. Dopo la morte di Costantino, il potere viene usurpato da Vortigern, che elimina il giovane erede Constante e chiama i Sassoni (Hengist e Horsa) come mercenari. Questi ultimi si ribellano e conquistano parte dell’isola. A questo punto appare Merlino. Goffredo interrompe la narrazione per riportare una raccolta di profezie enigmatiche, che anticipano eventi futuri e alludono anche alla realtà politica normanna. La narrazione riprende con Aurelio Ambrosio e Uther Pendragon, figli di Costantino, che crescono al sicuro in Armorica. Tornati da adulti, uccidono Vortigern e riconquistano il regno. Dopo l’avvelenamento di Ambrosio, Uther prende il potere. In battaglia si innamora di Igerna, moglie del duca Gorlois. Con l’aiuto magico di Merlino, la possiede sotto mentite spoglie: nasce così Artù. Alla morte di Gorlois, Uther sposa Igerna. Dopo nuove guerre contro i Sassoni, Uther vince ma muore a sua volta, avvelenato. Artù diventa re e schiaccia i Sassoni. Conquista la maggior parte del Nord Europa e stabilisce un lungo periodo di pace. Ma Roma, guidata da Lucio Tiberio, pretende tributo. Artù invade la Gallia e lo sconfigge. Mentre è via, il nipote Mordred usurpa il trono e sposa Ginevra. Artù torna, lo uccide nella battaglia di Camlann ma resta ferito a morte. Viene portato ad Avalon e affida il regno a Costantino, figlio del duca di Cornovaglia. Dopo Artù, i Sassoni tornano. La stirpe reale sopravvive fino a Cadwallader, ultimo re britannico, costretto a fuggire e poi ritirarsi a Roma dopo aver ricevuto una rivelazione divina: i Britanni non governeranno più. Muore in esilio, mentre i Sassoni prendono definitivamente il controllo e i Britanni si rifugiano in Galles.


Lo scopo di Goffredo è chiaro: offrire alla Britannia (intesa come isola e come concetto identitario) una storia nobile e coerente, fondata su origini troiane, legami imperiali e una dinastia regale autoctona che precede, anzi anticipa, la grandezza di Roma. In questo senso, Goffredo non è solo un narratore ma un ideologo della nazione ante litteram. In un’epoca in cui l’Inghilterra era divisa da tensioni etniche e linguistiche (anglosassoni, normanni, gallesi), l’Historia consegna una visione unificata e glorificata del passato.
Il più potente lascito dell’opera è senz’altro la figura di Re Artù. Goffredo non inventa il personaggio, che era già presente nella tradizione gallese orale e in testi come gli Annales Cambriae e la Historia Brittonum attribuita a Nennio, ma ne realizza la canonizzazione narrativa. Lo trasforma da eroe tribale a re universale, da guerriero locale a imperatore cristiano. Nel suo racconto, Artù non solo difende la Britannia dai Sassoni ma conquista l’Irlanda, l’Islanda, la Norvegia, la Gallia, arrivando a minacciare direttamente l’autorità di Roma. La narrazione arturiana di Goffredo è intrisa di elementi imperiali e cavallereschi: l’ordine, la giustizia, la magnificenza della corte, la lealtà dei cavalieri. L’Artù di Goffredo è la risposta britannica a Enea, ad Alessandro Magno, a Carlo Magno.
Tuttavia, è importante notare che nella Historia non si trovano ancora alcuni elementi che oggi associamo al ciclo arturiano: la Tavola Rotonda, la ricerca del Graal, la storia d’amore tra Lancillotto e Ginevra. Questi aspetti verranno sviluppati più tardi da autori come Chrétien de Troyes, Wace, Layamon e, nel XV secolo, Thomas Malory. Ma senza la Historia Regum Britanniae, questo universo narrativo non avrebbe preso forma. Goffredo fornisce lo scheletro, saranno altri a rivestirlo di carne, sentimenti e simbolismo.
Altro personaggio fondamentale dell’opera è Merlino (Merlinus), figura ambigua e carismatica che incarna il sapere magico e la profezia. Goffredo gli dedica una sezione specifica (Prophetiae Merlini), che circolò anche come testo autonomo. Le profezie di Merlino sono spesso oscure, ricche di simbolismi animali e metafore e hanno avuto una notevole influenza nella cultura medievale, soprattutto nella politica dinastica. In epoca medievale, le profezie non erano meri giochi letterari: erano strumenti di potere. Monarchi, cronisti e chierici le utilizzavano per legittimare pretese dinastiche o delegittimare avversari. Le profezie di Merlino furono interpretate, rimaneggiate e adattate per secoli: basti pensare al loro uso durante la Guerra delle Due Rose e nei testi di John Dee durante l’epoca elisabettiana.
La fortuna dell’Historia Regum Britanniae fu enorme. In pochi decenni dalla sua redazione, l’opera divenne un bestseller medievale. Ne esistono oltre 200 manoscritti, molti dei quali splendidamente miniati. Il testo fu tradotto e rielaborato in diverse lingue: francese, inglese, gallese, e perfino islandese. Robert Wace, con il Roman de Brut (circa 1155), la rielaborò in versi francesi, introducendo per la prima volta l’idea della Tavola Rotonda. Layamon, nel suo Brut in inglese antico (fine XII secolo), ne ampliò il respiro epico, intrecciando la narrazione arturiana con le tradizioni sassoni. In Galles, la tradizione profetica di Merlino si fuse con quella del bardo Myrddin, generando una nuova letteratura pseudo-profetica. Nel tardo Medioevo, la leggenda arturiana si integrò nei grandi cicli cavallereschi continentali: il Lancelot-Graal, la Vulgata, il Mort Artu. In epoca rinascimentale, Artù fu ripreso da Edmund Spenser (The Faerie Queene) e celebrato come simbolo della continuità britannica sotto la regina Elisabetta. Nel Romanticismo, fu riscoperto come figura nostalgica e ideale, protagonista dei versi di Alfred Tennyson nei Idylls of the King (XIX secolo).
A partire dal XIV secolo, e con l’avvento della storiografia critica rinascimentale, l’autorità storica della Historia fu messa in discussione. Umanisti e antiquari come Polidoro Virgili iniziarono a denunciare la falsità delle origini troiane della Britannia. Gli storici moderni concordano nel ritenere l’opera una costruzione letteraria priva di fondamento fattuale. Eppure, la potenza culturale del testo ha resistito. Goffredo di Monmouth ha avuto un impatto paragonabile a quello di Omero per i greci o di Virgilio per i romani: non per la verità storica ma per la capacità di plasmare un immaginario collettivo.
Goffredo non è uno storico nel senso moderno del termine ma è stato uno dei più ragguardevoli narratori politici del Medioevo. La sua opera non solo ha creato una mitologia nazionale per la Britannia ma ha generato un intero universo narrativo che continua a vivere nei romanzi, nei film, nei giochi, nei fumetti e nella cultura popolare globale. Ha saputo intrecciare mito e potere, leggenda e propaganda, costruendo un passato che non era mai esistito ma di cui milioni di persone, per secoli, hanno sentito il bisogno di credere.

 

 

 

 

Prudenzio di Troyes

Voce dell’intellettualità carolingia tra ortodossia e potere

 

 

 

 

Prudenzio di Troyes è una figura poco nota al grande pubblico ma centrale per chi studia il mondo carolingio. Uomo di Chiesa e, insieme, consigliere politico, letterato e teologo, fu un interprete del tempo in cui visse: un’epoca segnata da profonde trasformazioni, dove il destino dell’Impero franco era indissolubilmente legato alla costruzione di una cultura cristiana condivisa. Come altri vescovi-intellettuali del IX secolo, tra cui Rabano Mauro, Incmaro di Reims e Lupo di Ferrières, operò nel solco di una missione precisa: mettere la parola al servizio dell’ordine e della fede.
Per comprendere l’attività e il pensiero di Prudenzio bisogna inquadrarli nel contesto post-carolingio. Alla morte di Carlo Magno (814), suo figlio Ludovico il Pio assunse il titolo imperiale ma la sua autorità fu costantemente minata da tensioni dinastiche e da una difficile gestione dell’eredità imperiale. Alla sua morte (840), i suoi figli – Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo – si contesero il potere, fino a giungere al Trattato di Verdun (843), che sancì la divisione dell’Impero in tre regni.
È in questo scenario di instabilità che Prudenzio fu nominato vescovo di Troyes nel 843, proprio l’anno del trattato. La sua azione culturale e politica si legò, in particolare, al sostegno di Carlo il Calvo, re della Francia occidentale.
Le informazioni biografiche su Prudenzio sono scarse ma si può dedurre che avesse ricevuto un’educazione di alto livello, probabilmente in una scuola episcopale o monastica. Mostrava una padronanza notevole della lingua latina, delle fonti patristiche (soprattutto Agostino e Gregorio Magno), della retorica classica e dei testi sacri. La sua scrittura denota anche familiarità con la produzione letteraria della corte carolingia, in particolare quella di Eginardo, biografo di Carlo Magno.


Uno dei temi più rilevanti del IX secolo fu la disputa sulla predestinazione, esplosa a seguito delle teorie di Godescalco di Orbais, che sosteneva una doppia predestinazione (alcuni destinati da Dio alla salvezza, altri alla dannazione). Nel suo trattato De Praedestinatione contra Johannem Scotum, Prudenzio difende l’idea che Dio predestini solo alla salvezza, mentre la dannazione è frutto del peccato umano e della libera scelta. Questa posizione, più equilibrata, mirava a salvaguardare l’immagine di un Dio giusto e misericordioso e, allo stesso tempo, l’integrità del tessuto morale e sociale cristiano. Un Dio che condanna arbitrariamente mina infatti la fiducia del credente e l’autorità della Chiesa.
Oltre che teologo, Prudenzio fu anche un poeta. Alcuni carmi attribuitigli rivelano l’influenza della tradizione classica (Virgilio, Orazio), ma anche di autori cristiani come Prudenzio Clemente, dal quale prese forse ispirazione per il nome. Le sue composizioni si distinguono per l’uso raffinato del metro latino, la ricchezza lessicale e l’intento didascalico. I temi sono prevalentemente religiosi ma sempre con un’attenzione al contesto storico e sociale.
Prudenzio non fu solo scrittore: partecipò attivamente alla vita politica ed ecclesiastica del regno. Fu presente ai concili di Parigi (846), due volte a quello di Quierzy (849 e 853) e di Soisson (853), in cui si discussero questioni decisive sulla disciplina clericale, la simonia e le eresie. Era anche coinvolto nella promozione della riforma della vita monastica secondo l’ideale benedettino e nella difesa dell’autonomia episcopale rispetto ai poteri laici.
In tutti questi ambiti, Prudenzio agiva con una chiara consapevolezza della funzione pubblica del vescovo: non solo guida spirituale ma custode dell’ordine e mediatore tra potere civile e autorità religiosa.
Dopo la sua morte (intorno all’861), cadde progressivamente nell’oblio, forse anche perché legato a una stagione politica che si andava spegnendo con la frammentazione carolingia. Tuttavia, la riscoperta degli autori dell’alto Medioevo nel XX secolo ha portato nuovi studi sulla sua opera.
In Prudenzio di Troyes si riflette l’identità complessa del vescovo carolingio: scrittore, uomo politico, teologo e poeta. La sua opera è un tentativo di dare forma alla storia attraverso la fede, di leggere il presente con gli strumenti della Scrittura e della retorica classica. Il suo lavoro contribuì a definire un’ideologia cristiana del potere che avrebbe avuto lunga vita nel Medioevo: quella in cui il re governa per mandato divino ma anche in cui la parola, quando è dotta e benedetta, può diventare fondamento di autorità.

 

 

 

 

 

Gotescalco d’Orbais

Pensatore scomodo della cristianità carolingia

 

 

 

 

Gotescalco d’Orbais, attivo nella prima metà del IX secolo, è una delle figure più controverse e intellettualmente affascinanti del Medioevo carolingio. Monaco, teologo, poeta e polemista, fu protagonista di un acceso conflitto dottrinale sulla predestinazione, che mise in discussione l’ortodossia del suo tempo e anticipò alcuni temi fondamentali della riflessione religiosa occidentale. A lungo dimenticato o distorto dalla storiografia ecclesiastica, è oggi rivalutato come esempio di rigore intellettuale e coraggio teologico in un’epoca di consolidamento istituzionale della Chiesa.
Gotescalco nacque intorno all’anno 805, probabilmente in Sassonia, da una famiglia nobile. Ancora fanciullo, fu affidato come oblato all’abbazia benedettina di Fulda, uno dei centri spirituali e culturali più importanti dell’Impero carolingio. L’oblazione era una pratica che prevedeva la consacrazione di un bambino alla vita monastica, spesso decisa dai genitori. Questo atto, pur riconosciuto dall’autorità ecclesiastica, divenne in seguito oggetto di critiche da parte dello stesso Gotescalco, che rivendicò la libertà personale come prerequisito per una vera vocazione religiosa. Il suo rifiuto dell’oblazione forzata, affrontato come una questione giuridica e teologica, è emblematico del suo carattere: non un semplice ribelle ma un uomo guidato da una visione coerente dell’autorità, della libertà e della fede. Dopo aver perso la disputa legale contro Rabano Mauro, abate di Fulda, Gotescalco si trasferì nell’abbazia di Orbais, in Neustria, dove fu ordinato sacerdote e approfondì i suoi studi di teologia, filosofia e letteratura classica.
L’elemento centrale e più clamoroso del pensiero di Gotescalco è la dottrina della “predestinazione gemina”: l’idea che Dio, nella sua onnipotente prescienza, abbia eternamente predestinato alcuni alla salvezza e altri alla dannazione. Secondo lui, questa doppia predestinazione non è condizionata dalle opere né influenzata dal libero arbitrio umano ma è inscritta nel disegno eterno e immodificabile della volontà divina.


Gotescalco si basava principalmente su testi di Agostino d’Ippona, in particolare sulle sue opere anti-pelagiane. Tuttavia, radicalizzava l’agostinismo in una forma più estrema, avvicinandosi al determinismo. A suo avviso, la giustizia di Dio si manifesta sia nella salvezza degli eletti che nella punizione dei reprobi e la grazia non è distribuita equamente ma secondo un decreto divino misterioso e inappellabile.
Questa dottrina colpiva al cuore la visione teologica carolingia, che cercava di conciliare l’onnipotenza divina con la libertà e la responsabilità dell’uomo. Per Gotescalco, il libero arbitrio esiste solo in un senso secondario: l’uomo agisce ma la sua sorte è già fissata. Qualsiasi merito o demerito individuale è solo manifestazione visibile di una scelta eterna fatta da Dio.
La predicazione di Gotescalco attirò rapidamente l’attenzione dei vescovi. Il primo a reagire fu Rabano Mauro, suo antico avversario, che lo accusò di eresia per la sua interpretazione rigida della predestinazione. Il caso esplose nel sinodo di Magonza del 848, dove venne condannato, pubblicamente frustato e costretto a bruciare i suoi scritti. La sentenza ordinò la sua reclusione nel monastero di Hautvillers, con il divieto assoluto di insegnare o scrivere. Questa condanna non fermò la sua produzione intellettuale: continuò a scrivere trattati, lettere, inni poetici, mostrando una lucidità e una resistenza spirituale fuori dal comune. Le sue poesie (i Carmina) sono tra i documenti più suggestivi del periodo, non solo per il valore letterario ma anche per la forza della testimonianza interiore.
La polemica sulla predestinazione diede origine a un dibattito acceso nel mondo carolingio. L’imperatore Carlo il Calvo, interessato a mantenere la coesione ecclesiastica, convocò, nell’849, un altro sinodo, a Quierzy, che confermò la condanna di Gotescalco. Ma il caso era ormai diventato un affare teologico di primo piano.
Tra i principali oppositori del monaco figurava Giovanni Scoto Eriugena, uno dei massimi filosofi della scolastica primitiva. Eriugena scrisse un trattato intitolato De divina praedestinatione, in cui confutava radicalmente le tesi di Gotescalco, sostenendo che la dannazione non è oggetto di predestinazione, poiché Dio è bontà assoluta e non può volere il male. Tuttavia, la posizione di Eriugena – influenzata dal neoplatonismo – fu anch’essa giudicata sospetta da alcuni ambienti ecclesiastici, proprio perché sembrava negare la giustizia punitiva divina. Nel frattempo, altri teologi come Prudenzio di Troyes, Remigio di Auxerre e Floro di Lione tentarono una via intermedia: affermare che Dio predestina alla salvezza, ma solo prevede la dannazione dei reprobi in quanto frutto del libero arbitrio. Questa distinzione tra praedestinatio e praescientia fu il compromesso più largamente accettato dai sinodi successivi.
Gotescalco morì attorno all’868, ancora recluso, senza aver mai abiurato le sue convinzioni. Per secoli, fu ricordato come eretico e agitatore. A partire dal Rinascimento, però, e, soprattutto, dalla Riforma protestante, il suo pensiero fu riscoperto e rivalutato. Martin Lutero e Giovanni Calvino videro in lui un precursore della loro dottrina sulla grazia e la predestinazione.
Nel XX secolo, la storiografia critica ha restituito a Gotescalco la sua complessità: non un fanatico ma un teologo coerente, formatosi in una tradizione agostiniana e costretto a esprimersi in un’epoca in cui il potere ecclesiastico tendeva a reprimere ogni voce dissonante.
Gotescalco d’Orbais è stato un pensatore radicale. La sua concezione di Dio non lascia spazio a compromessi: o la grazia è totale oppure tutto è menzogna. Nella sua visione cupa e lucida del mondo si scontrano forze opposte – giustizia contro misericordia, libertà contro destino. Non è stato uno modello dottrinale, quanto un esempio di onestà intellettuale, integrità morale e fede incrollabile, in un tempo in cui pensare liberamente poteva costare caro. La sua storia smentisce l’immagine di un Medioevo privo di pensiero critico: fu anche un’epoca di dibattiti accesi e di una ricerca appassionata della verità.

 

 

 

 

Lupo Servato

Intellettuale carolingio tra fede, politica e filologia

 

 

 

 

Lupo Servato (in latino Lupus Servatus o Lupus Ferrariensis), monaco, abate, scrittore, teologo e filologo, nato intorno all’805 nella diocesi di Sens, in quella che oggi è la Francia centrale, uomo di pensiero e di lettere, fu una delle voci più lucide del suo tempo e protagonista tra i più rappresentativi del Rinascimento carolingio, quell’ondata di rinnovamento culturale voluto da Carlo Magno e proseguito dai suoi successori per riportare ordine, cultura e fede in un’Europa uscita dal caos post-romano.
Proveniva da una famiglia aristocratica di origine bavarese, il che gli garantì l’accesso a un’educazione d’élite. Sin da giovane entrò come monaco nel monastero di Ferrières-en-Gâtinais, uno dei centri monastici più attivi e prestigiosi dell’epoca. La sua formazione fu di altissimo livello: studiò prima sotto la guida dell’abate Aldrico e poi fu inviato, intorno all’828, all’abbazia di Fulda, per perfezionarsi con Rabano Mauro, uno dei maggiori intellettuali del tempo e discepolo diretto di Alcuino di York. Questa esperienza lo collocò subito al centro della rete intellettuale carolingia.
A Fulda strinse rapporti con altri studiosi, come Gotescalco di Orbais, e iniziò a costruire una rete epistolare che, con il tempo, sarebbe diventata capitale per la conoscenza storica dell’epoca: Lupo era, infatti, un grande scrittore di lettere, genere che univa riflessione teologica, scambio culturale e diplomazia personale.
Tornato a Ferrières dopo gli studi, divenne segretario dell’abate Oddone e, intorno all’841, venne eletto abate grazie anche all’appoggio del re Carlo il Calvo. La sua nomina non fu soltanto un riconoscimento della sua erudizione ma anche della sua abilità politica e del suo senso della mediazione.
Negli anni successivi, si trovò a gestire il monastero in un periodo turbolento: l’impero carolingio era in fase di disgregazione, la minaccia normanna si faceva sempre più pressante e le rivalità tra i figli di Ludovico il Pio indebolivano il potere centrale. Lupo seppe, però, mantenere una posizione di equilibrio, operando con prudenza e intelligenza. Partecipò a concili regionali, intraprese missioni presso altri monasteri e corti e si fece portavoce delle istanze del suo cenobio anche in contesti rischiosi, come quando viaggiò per riscattare monaci catturati dai normanni. Questo aspetto “diplomatico” del suo ruolo lo rende una figura di confine tra il religioso e il politico, tra la clausura monastica e il mondo agitato delle corti carolingie.


Lupo fu anche un pensatore raffinato, profondamente inserito nel dibattito teologico del tempo. Uno dei temi più controversi fu la questione della predestinazione, riaccesa proprio in quegli anni da Gotescalco di Orbais, che sosteneva una teoria radicale della predestinazione doppia: Dio ha già scelto chi sarà salvato e chi sarà dannato, indipendentemente dalle opere. Una posizione che suscitò reazioni fortissime. Lupo prese posizione in modo deciso ma equilibrato. Difese una lettura agostiniana, secondo cui la grazia è necessaria per la salvezza e l’umanità, segnata dal peccato originale, non può salvarsi da sola. Tuttavia, rifiutò la predestinazione alla dannazione come incompatibile con la giustizia e la misericordia divine. Nei suoi trattati, come il Liber de tribus quaestionibus e Collectaneum de tribus quaestionibus, si mostra abile nel maneggiare argomentazioni teologiche complesse, cercando di tenere insieme il rigore dottrinale e la compassione evangelica.
Il contributo più rilevante di Lupo è quello legato al suo impegno filologico. In un’epoca in cui la trasmissione dei testi classici era affidata quasi esclusivamente agli scriptoria monastici, si distinse come copista, correttore e diffusore di opere antiche. Sviluppò una vera e propria passione per Cicerone, Sallustio, Virgilio, Ovidio, Terenzio, Seneca, Quintiliano e molti altri. Scrisse ai suoi amici e conoscenti per ottenere manoscritti, ne corresse le versioni, annotò, selezionò, restaurò. Non si trattava solo di un esercizio estetico o intellettuale: Lupo considerava la letteratura classica come un patrimonio da salvare e da mettere al servizio della formazione morale e cristiana. La sua attività anticipò per molti versi quella degli umanisti del Quattrocento e oggi viene considerata tra primi esempi di quella che sarebbe stata poi chiamata “rinascita del latino classico”.
Oltre ai suoi trattati e alla sua attività filologica, la fonte più preziosa per conoscere Lupo resta il suo epistolario, composto da 127 lettere oggi conservate. Questi testi ci restituiscono una voce vivissima, diretta, a tratti anche ironica o critica. Lupo scriveva per chiedere, per consigliare, per raccontare, per negoziare. Si rivolgeva a vescovi, re, abati, amici. In queste lettere troviamo una testimonianza diretta della vita monastica, dei conflitti interni all’Impero, della circolazione dei libri, dei rapporti tra potere e cultura.
Lupo Servato morì probabilmente intorno all’862. Non fu mai canonizzato, eppure lasciò un’impronta profonda nella storia dell’intellettualità medievale. Rappresenta un modello di equilibrio tra contemplazione e azione, tra spiritualità e cultura, tra tradizione e innovazione. Fu teologo senza dogmatismi, umanista ante litteram, custode della memoria classica e interprete lucido della sua epoca.

 

 

 

 

La scienza di Dio e l’intelligenza della Legge

L’architettura filosofica della Guida dei perplessi
di Mosè Maimonide

 

 

 

 

 

Mosè Maimonide, noto anche come Rambam (acronimo di Rabbī Mōsheh ben Maymōn), nato a Cordova nel 1138 e morto al Cairo nel 1204, è stato uno dei più grandi pensatori della tradizione ebraica e, più in generale, una figura cardine della filosofia medievale occidentale. La sua formazione si è sviluppata all’incrocio di tre mondi: la cultura ebraica, la filosofia greca mediata dall’islam e le scienze naturali e mediche del suo tempo. Uomo di sapere enciclopedico, è stato giurista, medico, teologo e filosofo, capace di dominare con lucidità tanto il Talmud quanto la filosofia di Aristotele.
Maimonide visse in un periodo storico segnato da migrazioni forzate, tensioni religiose e contaminazioni culturali. A seguito della persecuzione degli ebrei da parte della dinastia almohade, fu costretto a fuggire dalla Spagna islamica, passando per il Marocco e la Terra d’Israele, fino a stabilirsi in Egitto, dove divenne capo della comunità ebraica e medico del visir al-Qāḍī al-Fāḍil al-Baysāmī, ministro per l’Egitto del Saladino. La sua biografia è, quindi, quella di un intellettuale errante, in cerca di un equilibrio tra identità ebraica e contesto musulmano, tra tradizione religiosa e razionalismo filosofico.
Sul piano intellettuale, si mosse con estrema ambizione: intese dimostrare che non esistesse contraddizione profonda tra fede e ragione ma solo livelli diversi di accesso alla verità. Da un lato, si propose di sistematizzare la legge ebraica nel Mishneh Torah, un’opera che mirava a essere un codice completo e compendiato del Talmud. Dall’altro, nella Guida dei perplessi, si rivolse a un pubblico ristretto, filosoficamente istruito, per affrontare questioni di teologia, metafisica e linguaggio religioso.
Scritta in giudeo-arabo, la Guida dei perplessi (מורה נבוכים ‎, Moreh Nevukhim ‎, 1190) fu composta in un periodo di tensione tra scienza e religione, tra filosofia greca e fede rivelata. I “perplessi” del titolo sono gli uomini colti che avevano ricevuto un’educazione nella Torah e, allo stesso tempo, conoscevano Aristotele, Avicenna e Al-Fārābī. Erano credenti che pensavano nel pensare, si smarrivano.
L’intento di Maimonide non era fornire un catechismo ma una via alla verità, accessibile solo a pochi: coloro che, pur immersi nella tradizione, osavano interrogarsi su Dio, la Legge, il mondo e l’uomo. L’opera è volutamente densa, allusiva, piena di ambiguità intenzionali. Maimonide stesso dichiara che a volte dice e poi contraddice, per proteggere i segreti filosofici dai lettori inadeguati.
Il Libro I della Guida è dedicata alla corretta comprensione di Dio e al modo in cui il linguaggio può o non può riferirsi a Lui. Maimonide affronta il problema dell’antropomorfismo presente nella Scrittura, cercando di mostrare come i termini che sembrano attribuire a Dio un corpo, emozioni o azioni umane debbano essere interpretati allegoricamente o metaforicamente. Le espressioni bibliche come “la mano di Dio” o “l’ira del Signore” non vanno prese alla lettera: sono strumenti pedagogici pensati per la massa, che non può accedere alla comprensione intellettuale della divinità. L’idea centrale è che Dio non può essere conosciuto attraverso affermazioni positive. Non si può dire “Dio è sapiente”, come se fosse un attributo umano potenziato. Si può solo affermare ciò che Dio non è: non è corpo, non è molteplice, non è finito. È questa la cosiddetta via negativa (teologia apofatica), che preserva la trascendenza divina da ogni proiezione antropocentrica. Accanto a questa purificazione del linguaggio, Maimonide comincia ad accennare al ruolo centrale dell’intelletto nella religiosità autentica. La conoscenza di Dio, secondo lui, non è sensibile né immaginativa, ma strettamente intellettuale. In questo senso, anticipa l’importanza che avranno l’intelletto agente e la teoria della conoscenza nelle sezioni successive. Il messaggio è chiaro: la fede non può essere cieca, deve essere pensata.

Il Libro II si apre con una grande sfida filosofica: come conciliare la cosmologia aristotelica con la dottrina biblica della creazione. Aristotele insegna che il mondo è eterno, senza inizio né fine. La Torah, invece, afferma con forza che Dio ha creato il mondo dal nulla. Maimonide non respinge in blocco la scienza aristotelica: ne accetta la struttura generale dell’universo, l’idea delle sfere celesti e il concetto di intelligenze separate. Tuttavia, respinge la tesi dell’eternità del mondo, anche se ammette che essa non può essere confutata razionalmente in modo definitivo. L’idea della creazione non è dimostrabile con la filosofia: è accettabile solo per chi riconosce l’autorità della rivelazione. Questa posizione è decisiva, perché stabilisce un limite alla ragione: la filosofia arriva solo fino a un certo punto. Oltre quel punto, la guida non è più la logica ma la Torah. È in questa zona di confine che Maimonide esercita la sua intelligenza strategica: non rinnega Aristotele, gli assegna il suo posto all’interno di una visione più ampia e rivelata. Nel trattare la provvidenza divina, poi, rompe con l’idea che Dio si occupi indistintamente di tutti. La sua visione è selettiva: Dio si prende cura in modo diretto solo degli esseri intelligenti e virtuosi. Gli altri, privi di discernimento e conoscenza, sono lasciati in balia del caso. Non si tratta di un Dio capriccioso ma di una concezione razionale della relazione tra perfezione intellettuale e protezione divina. In altre parole, la vicinanza a Dio è proporzionale alla nostra capacità di conoscerLo.
Il Libro III è il più esteso e filosoficamente maturo. Maimonide vi affronta il problema del male, il significato dei precetti della Torah, la natura della profezia e il vero scopo della vita umana. Comincia con una teodicea razionale: il male non è una forza positiva ma una privazione del bene. Deriva dall’imperfezione della materia o dalla libertà dell’uomo. Dio non crea il male; esso sorge come conseguenza dell’essere corporei e liberi. La riflessione sulla Legge è forse l’aspetto più rivoluzionario dell’intera opera. Maimonide afferma che ogni precetto della Torah ha una ragione precisa, legata al miglioramento dell’uomo e alla sua purificazione spirituale. I sacrifici, per esempio, non sono voluti da Dio in senso assoluto ma concessi come compromesso storico per distogliere gli ebrei dall’idolatria. Il vero obiettivo della Legge non è l’osservanza formale ma l’elevazione morale e intellettuale dell’individuo. La Torah, pertanto, diventa uno strumento pedagogico, un mezzo per condurre l’uomo alla contemplazione della verità. Il culmine del pensiero maimonideo si trova nella sua concezione della perfezione umana. L’essere umano realizza il proprio scopo non attraverso riti o emozioni religiose, quanto attraverso la conoscenza razionale di Dio. Questo processo culmina nella congiunzione con l’intelletto agente, che rappresenta la forma più alta di felicità possibile. Maimonide si allontana, così, da ogni forma di misticismo emotivo: la vera beatitudine non è una sensazione ma una comprensione.
Le dottrine di Maimonide hanno attraversato i secoli, le religioni e le culture. Nell’ebraismo ha segnato una svolta epocale. Prima di lui, la filosofia era vista con sospetto; con lui, diventa uno strumento legittimo, anzi, necessario, per avvicinarsi a Dio. Il suo pensiero ha diviso e unito, suscitando ammirazione e polemiche. In alcuni ambienti è stato accusato di razionalismo eccessivo ma nel lungo periodo ha vinto il rispetto della quasi totalità del mondo ebraico. I suoi scritti sono stati commentati, emendati, copiati e studiati per generazioni, fino a diventare pietra angolare del pensiero rabbinico moderno.
Tuttavia, l’eredità di Maimonide non si è fermata ai confini dell’ebraismo. La sua Guida è stata tradotta in latino e altre lingue, entrando nei circuiti della filosofia scolastica cristiana. Tommaso d’Aquino ne ha tratto spunti importanti, soprattutto per la teologia negativa e la concezione della Legge naturale. Anche nel mondo islamico Maimonide ha continuato a essere letto e rispettato come interprete della filosofia greca e come pensatore della ragione, dimostrando che il dialogo tra culture non è solo possibile ma può produrre opere di portata universale.
La sua visione della religione come percorso razionale verso la verità ha anticipato molte delle tensioni moderne tra scienza e fede, tra tradizione e pensiero critico, proponendo un modello alternativo: non un compromesso ma una gerarchia dove la Rivelazione guida e la ragione decifra. Dove la religione educa e la filosofia libera. La sua grandezza è nell’aver mostrato che la verità, per essere tale, deve essere difficile, non immediata, non per tutti, ma conquistata con disciplina, rigore e coraggio intellettuale.

 

 

 

 

 

L’abbraccio del canto

Casella e la melodia del ricordo eterno

 

 

 

 

Casella, il musico fiorentino amico di Dante, appare nel Canto II del Purgatorio della Divina Commedia. La sua figura, avvolta da un’aura di dolcezza e nostalgia, incarna una delle più toccanti rappresentazioni dell’amicizia e dell’arte nella Commedia. Il sua comparsa è breve ma carica di significato simbolico ed emotivo.
Dante e Casella si incontrano sulla spiaggia del Purgatorio, in un momento sospeso tra il ricordo della vita terrena e l’attesa della purificazione. Casella appare come un’anima gentile, capace di riportare a Dante un conforto antico attraverso la musica. Quando il sommo poeta lo riconosce, il tono del suo discorso si colora subito di affetto e malinconia. Le prime parole di Dante rivolte all’amico sono piene di calore e desiderio di risentire quella musica che un tempo gli aveva offerto tanto sollievo:

E io: “Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!”.
(Purg. II, vv. 106-111)

In questi versi si percepisce il desiderio di Dante di trovare un momento di tregua dalle fatiche del viaggio, attraverso una consolazione che solo l’arte di Casella gli può offrire. La musica diventa qui un balsamo per l’anima affaticata, un ricordo dei tempi passati, quando l’amicizia e l’arte condividevano lo stesso respiro.

Casella, con la sua risposta affettuosa, non si sottrae alla richiesta dell’amico. Il canto che intona è una canzone, Amor che ne la mente mi ragiona, realmente composta da Dante e inclusa nel Convivio. La sua voce, sulla spiaggia del Purgatorio, sembra sospendere il tempo, creando un momento di perfetta armonia tra il mondo terreno e quello ultraterreno. La scena si carica di una bellezza malinconica, poiché i due amici, per un attimo, rivivono i giorni della vita passata.
Ma questa tregua dura solo un istante. Quando Casella inizia a cantare, tutte le anime presenti si fermano, incantate dalla dolcezza della melodia. Questo idillio viene bruscamente interrotto da Catone, che li richiama all’ordine, ricordando loro che non è tempo di indulgenza, ma di redenzione. Il suo ammonimento è severo:

Che è ciò, spiriti lenti?
Qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto.
(Purg. II, vv. 120-123)

Il richiamo di Catone segna la fine del momento di contemplazione e ci riporta alla realtà del cammino che Dante deve intraprendere. Casella, che per un attimo aveva riportato il poeta ai giorni della giovinezza, scompare tra le altre anime. Eppure, il ricordo di questo incontro resta potente, come un’eco lontana, un segno di quanto l’arte e l’amicizia possano elevare l’anima anche nei momenti più difficili.
Casella diventa così simbolo di una dolcezza che il Purgatorio stesso permette, pur nella sua tensione verso la purificazione. In lui, Dante riconosce il potere dell’arte di trasportare l’anima oltre il tempo e lo spazio, rendendola capace di avvicinarsi, almeno per un istante, a quell’armonia divina che solo alla fine del cammino potrà essere raggiunta.
In questa breve apparizione, Casella incarna l’elegia della memoria, dell’amicizia e dell’arte, capace di risvegliare in Dante l’umana nostalgia, ma anche di ricordargli che il cammino verso la salvezza non può arrestarsi per troppo tempo nella dolcezza del ricordo.

 

 

 

 

 

Il matrimonio del sapere

Marziano Capella e la nascita delle Arti Liberali

 

 

 

 

De nuptiis Philologiae et Mercurii (Le nozze di Filologia e Mercurio) di Marziano Capella costituisce un unicum nel mondo culturale tardoantico. Un’opera difficile da classificare, densa di significati allegorici, mitici, filosofici e, soprattutto, di una profonda ambizione pedagogica. Scritta in un periodo di transizione, tra la dissoluzione della cultura classica e la lenta affermazione dell’ordo christianus, il De nuptiis (inizialmente nota anche come Satyricon) è un testo enciclopedico in forma di prosimetro, che racchiude e rielabora l’intero impianto del sapere pagano, organizzandolo attorno alla simbolica unione tra l’intelletto e il sapere: Mercurio e Filologia.
Composto tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, forse a Cartagine, il testo riflette un mondo culturale ormai consapevole della propria fragilità. L’Impero Romano d’Occidente è in crisi, il sapere tradizionale viene messo in discussione da nuove autorità religiose, eppure la cultura latina tenta ancora di salvarsi e trasmettersi attraverso la forma dell’enciclopedia simbolica. Marziano Capella non è un filosofo originale ma un compilatore geniale che riesce a condensare retorica, logica, matematica, musica e cosmologia in una narrazione fantastica e formativa.
L’opera si articola in nove libri, con un proemio iniziale che narra la vicenda mitica delle nozze tra Mercurio e Filologia, giovane mortale destinata a essere assunta tra gli dèi come premio per la sua dedizione alla conoscenza. Questa unione viene autorizzata da Giove, il quale decreta che Filologia debba prima essere istruita dalle Arti Liberali, che le vengono presentate in forma personificata. I primi due libri sono narrativi e allegorici; i successivi sette (III-IX) costituiscono una vera e propria summa delle Arti Liberali, divise secondo il canone tardoantico del trivio e quadrivio.
La distinzione tra trivio e quadrivio, che sarebbe poi diventata la base del sistema educativo medievale, trova in Marziano Capella una delle sue prime sistemazioni compiute: il trivio comprende le arti del linguaggio e dell’espressione (grammatica, dialettica, retorica); il quadrivio raccoglie le discipline matematiche e scientifiche (geometria, aritmetica, astronomia, musica).
Marziano non si limita a presentare queste arti: le personifica in figure femminili, ognuna delle quali prende la parola e illustra i propri saperi davanti agli dèi. Tale scelta è profondamente significativa: non solo rende più vivace il testo ma riflette una concezione quasi “teologica” del sapere, in cui ogni disciplina è una potenza, una entità autonoma con una funzione cosmica e spirituale.

Grammatica (Libro III)
La prima a comparire è la Grammatica, austera e venerabile, la cui sapienza viene da lontano. Parla in greco, a sottolineare le radici elleniche del sapere, e la sua esposizione è densa di riferimenti tecnici: declinazioni, ortografia, accenti, fonemi. Viene descritta come una scultrice del linguaggio: lavora la materia grezza della voce per renderla significante. È la base di ogni sapere, poiché insegna a parlare e a comprendere. Marziano la descrive come colei che introduce l’allievo nella città del sapere, rendendo possibile ogni successiva indagine conoscitiva.
Dialettica (Libro IV)
Segue la Dialettica, inquietante e acuta. Porta un pugnale e uno scudo: la sua arma è il sillogismo, la sua difesa la refutazione. Qui l’autore entra nel cuore della logica antica: definizioni, proposizioni, inferenze, paradossi. La dialettica è la disciplina che consente di distinguere il vero dal falso, il probabile dal necessario. Marziano fa riferimento tanto ad Aristotele quanto agli stoici, creando un’immagine della dialettica come arte del combattimento verbale, strumento essenziale nella formazione del giudizio critico.
Retorica (Libro V)
La Retorica è brillante e maestosa, adornata come una regina, capace di incantare con le sue parole. Ella espone i tre generi dell’oratoria (giudiziaria, deliberativa, epidittica), i modi della persuasione, le figure retoriche. Viene celebrata come l’arte che governa le assemblee e guida i popoli, seconda solo al potere del logos divino. Marziano ne accentua il ruolo sociale e politico: la retorica non è solo tecnica, è forza civile e morale.
Geometria (Libro VI)
Entrando nel quadrivio, vi è la Geometria, severa ma armonica, simbolo del rigore della misura e della struttura. Viene descritta come capace di dividere la terra, tracciare confini, edificare templi e città. Si fa riferimento a Euclide, Archimede e Pitagora. La geometria in Marziano non è solo disciplina pratica ma anche simbolo dell’ordine universale: la sua precisione riflette la razionalità del cosmo.
Aritmetica (Libro VII)
L’Aritmetica è rapida e luminosa, maneggia numeri come essenze. È capace di vedere l’unità nelle differenze e la molteplicità nell’unità. Marziano ne fa un’esposizione quasi mistica, con digressioni su proporzioni armoniche, numeri perfetti, poteri magici del numero. L’aritmetica viene così a rappresentare la chiave segreta dell’universo, il codice attraverso cui la mente può penetrare le leggi divine.
Astronomia (Libro VIII)
L’Astronomia è colei che rivela l’ordine celeste. Parla di sfere, orbite, congiunzioni, eclissi. Marziano attinge ampiamente all’astronomia tolemaica e all’astrologia, con riferimenti alle costellazioni e ai moti planetari. L’universo appare come una macchina perfetta e l’astronomia è la scienza che permette di contemplarne la bellezza. Ma è anche, implicitamente, una disciplina spirituale: sollevando lo sguardo verso il cielo, l’anima si purifica.
Musica (Libro IX)
La Musica, infine, è forse la più enigmatica. Viene presentata come arte dell’armonia, non solo acustica ma cosmica. Marziano descrive le proporzioni musicali, gli intervalli, i modi, insistendo sull’idea pitagorica della musica delle sfere: ogni pianeta emette un suono e l’universo è una sinfonia inudibile ma reale. La musica diventa così il simbolo dell’accordo tra intelletto e natura, tra anima e cosmo.

L’opera di Marziano Capella, quindi, è molto più di una raccolta di nozioni: è una visione del sapere come cammino di ascesa dell’anima. Filologia, giovane umana, viene accolta tra gli dèi proprio perché ha ricevuto in sé tutte le Arti Liberali: solo attraverso la conoscenza l’essere umano può diventare “divino”.
In questo senso, Marziano anticipa la visione medievale dell’educazione come processo spirituale. Ogni Arte Liberale non è solo un insieme di tecniche ma un gradus nella scala della sapienza. Il trivio educa il linguaggio e il pensiero; il quadrivio apre la mente all’ordine matematico e cosmico. Al termine, l’anima è pronta per accedere alla philosophia, che è la vera unione nuziale, la sapienza suprema.
Durante l’Alto Medioevo, De nuptiis fu uno dei testi più letti e copiati. Servì da base per le Etymologiae di Isidoro di Siviglia e influenzò profondamente l’impianto pedagogico delle scuole carolinge. Il modello di Marziano si ritrova altresì nell’organizzazione scolastica delle cattedrali e dei monasteri, nelle sette arti di Alcuino di York, nel curriculum delle università medievali e persino nella Divina Commedia di Dante risuonano echi della grande sinfonia enciclopedica di Marziano.
Il De nuptiis Philologiae et Mercurii è, pertanto, una mitologia della conoscenza, una celebrazione del sapere come via di salvezza. Marziano Capella, con il suo stile oscuro ma potente, consegna un’immagine integrale dell’uomo come essere razionale e spirituale, capace di elevarsi fino al divino attraverso l’esercizio delle arti.

 

 

 

 

 

Il trionfo del magico

La magia come chiave di genio poetico nell’Orlando furioso
di Ludovico Ariosto

 

 

 

In questo mio ultimissimo saggio, appena pubblicato da HARbif Editore, ho esaminato la complessa e poliedrica presenza della magia nell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, analizzandone le molteplici funzioni narrative, simboliche e filosofiche. La magia ariostesca si caratterizza non solo come strumento di meraviglia e intrigo, quanto, soprattutto, quale chiave interpretativa per comprendere le tensioni interiori dei personaggi, la fluidità delle identità, il conflitto tra ragione e follia e la dialettica tra libertà e destino. Attraverso il confronto con le tradizioni letterarie precedenti e successive e le riflessioni sulla ricezione moderna e l’attualità del magico ariostesco, ho evidenziato la modernità e la profondità della visione poetica di Ariosto. La magia, nelle sue molteplici sfaccettature, si conferma cuore pulsante dell’Orlando furioso, fonte inesauribile di ispirazione e specchio delle complessità dell’esperienza umana.

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La sapienza di Proclo al tramonto del mondo antico

 

 

 

 

 

Proclo Diadoco (412-485 d.C.) è stato l’ultimo grande sistematore della filosofia neoplatonica nella storia del pensiero tardoantico. Alla guida dell’Accademia platonica di Atene, riassunse, potenziò e rese organiche le dottrine di tutta la tradizione neoplatonica precedente. Rispetto a Plotino, Porfirio e Giamblico, introdusse un livello di sistematizzazione e rigore logico mai raggiunti prima. La sua opera è una costruzione ontologica imponente: un tempio filosofico in cui ogni essere ha un posto, ogni livello ha una funzione e ogni relazione rimanda all’Uno.
Il pensiero di Proclo non è semplice filosofia speculativa: è anche guida per l’anima, percorso spirituale, teologia pratica. È un modo per leggere il mondo come segno del divino e per ritrovare nell’ordine del cosmo la via del ritorno all’Unità originaria.
La filosofia di Proclo fiorì in un momento delicato: il mondo greco-romano stava cedendo sotto la pressione dell’impero cristiano. L’Accademia di Atene, fondata da Platone nel IV sec. a.C., era ormai una cittadella assediata della cultura pagana. Proclo ne fu uno degli ultimi grandi difensori. Tuttavia, la sua reazione non fu né nostalgica né puramente conservatrice. Al contrario, rafforzò e raffinò il sistema neoplatonico, dotandolo di una coerenza interna straordinaria, al fine di dimostrare non solo la superiorità del platonismo ma anche la sua capacità di rispondere ai bisogni religiosi, metafisici ed etici del tempo.
Al vertice dell’universo procliano c’è l’Uno, principio assoluto, non determinato, radicalmente trascendente. L’Uno non può essere pensato positivamente: non è essere, non è mente, non è Dio in senso personale. È oltre tutto questo. È la fonte pura da cui ogni cosa emana. L’Uno non agisce: emanare è per lui una necessità ontologica, non una scelta. Da esso tutto scaturisce per “processione” (prohodos) ma nulla si separa veramente da esso: ogni livello dell’essere è simultaneamente altro e in relazione.
Tutta la realtà si organizza secondo il ritmo universale delle tre fasi fondamentali: monê, la permanenza in sé, il rimanere nel principio; próodos, la processione da quel principio, l’uscita da sé; epistrophê, il ritorno al principio, la conversione verso l’unità. Questa triade, che deriva in parte da Plotino e in parte da Giamblico, è, per Proclo, la struttura stessa del reale: ogni ente, ogni livello, ogni dio, ogni anima riflette questa dinamica eterna. È il respiro metafisico del cosmo.

La filosofia procliana è profondamente gerarchica: l’universo è una scala dell’essere (scala entis) che va dal totalmente Uno fino alla materia. Ogni livello inferiore dipende dal superiore e lo riflette in modo più o meno offuscato. Questa gerarchia non è rigida ma dinamica. I principali livelli dell’essere, secondo Proclo, sono: l’Uno, principio supremo, ineffabile, assoluto; le Diadi ineffabili, princìpi dell’alterità e della molteplicità; gli Dèi intelligibili (noetici), unità puramente intelligibili, ancora immobili nella perfezione; gli Dèi intelligibili-intellettivi, ponte tra l’essere puro e l’intelletto attivo; gli Dèi intellettivi (noerici), sono Intelletti divini in atto, creatori dei mondi inferiori; le Anime divine, intermediari tra intelletto e natura; le anime individuali, legate al tempo e al corpo ma capaci di salvezza; la natura e la materia, il livello più basso ma non malvagio, solo il più lontano dalla fonte.
Il Nous è la prima realtà positiva dopo l’Uno. È l’Intelligenza eterna che contiene tutte le Idee platoniche. A differenza dell’Uno, il Nous è molteplice: è l’intelligenza che pensa se stessa (noesis noeseos), come nell’aristotelismo, seppure tale autopensabilità sia anche generativa. Il Nous è struttura e forma: ciò che rende possibile il cosmo. Ogni idea che vi è contenuta è anche un modello causale di tutte le cose che esistono. Ma non è ancora mondo: per passare alla realtà concreta occorre l’azione delle anime.
L’Anima è il luogo della mediazione. Essa vive su un crinale: guarda in alto verso l’intelligibile ma può anche discendere verso il corpo. Proclo distingue le Anime universali, che regolano i cicli del cosmo, dei pianeti, dei ritmi naturali, e le Anime particolari, umane e razionali, capaci di elevarsi verso l’intellegibile.
Il compito dell’anima è ricordare la sua origine e reintegrarsi nell’ordine divino. Questo percorso non è automatico: richiede conoscenza, disciplina e pratica spirituale.
Per Proclo, il cosmo è buono, ordinato, divino. Non esiste una “caduta” nel senso cristiano: la materia non è malvagia ma solo il grado più basso dell’essere. Ogni cosa, anche la più vile, è segno dell’Uno. Il male non ha sostanza propria: è privazione, disordine, non-essere. Eppure, anche il disordine è funzionale al tutto. Tutto ciò che esiste ha una funzione nell’economia divina. L’universo, nel suo complesso, è una liturgia cosmica: ogni essere, consapevole o no, partecipa alla danza dell’essere.
La filosofia di Proclo è, quindi, una visione dell’universo come ordine perfetto, una scala ininterrotta che va dall’Uno alla materia e ritorna all’Uno. Ogni cosa ha un posto, ogni azione ha un senso, ogni essere è un ponte tra la molteplicità e la fonte dell’essere. Non c’è scissione, solo livelli di partecipazione. Il compito dell’anima umana è riconoscere il tutto, comprendere il proprio ruolo e risalire la scala dell’essere verso la propria origine.