Archivio mensile:Agosto 2025

La mercificazione dell’umano

Una lettura filosofica di Marx

 

 

 

 

Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore”.

(Karl Marx, Miseria della filosofia, 1847, par. 1)

 

 

Uno dei nuclei teorici più rilevanti della filosofia di Karl Marx è la riflessione sul processo di mercificazione universale che caratterizza il modo di produzione capitalistico. Nel celebre passo riportato, in cui afferma che “virtù, amore, opinione, scienza, coscienza” divengono oggetto di traffico e possono essere alienati, Marx porta alle estreme conseguenze la sua analisi della forma-merce: ciò che appare come semplice logica economica diventa, in realtà, principio ordinatore dell’intera vita sociale.
In Il Capitale, Marx definisce la merce come l’elemento cellulare della società borghese. Essa non è soltanto un bene materiale ma una forma sociale che struttura i rapporti tra gli individui. Nel passo citato in apertura, il movimento di estensione della forma-merce appare in tutta la sua radicalità: non solo i prodotti del lavoro ma le qualità più propriamente umane vengono sussunte nel meccanismo dello scambio. L’oggettivazione del lavoro, già descritta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, si traduce qui in una generalizzazione della logica mercantile. L’alienazione non è più confinata alla sfera della produzione, bensì investe le relazioni affettive, le espressioni intellettuali, le dimensioni etiche. La “corruzione generale” e la “venalità universale” a cui Marx fa riferimento non devono dunque essere intese in senso morale, bensì strutturale. Esse descrivono il funzionamento intrinseco di un sistema che trasforma l’incommensurabile in misurabile, l’invalutabile in prezzo, dissolvendo progressivamente i legami comunitari e le forme di riconoscimento simbolico non mediati dal denaro.
La dinamica qui delineata si lega strettamente alla categoria di alienazione. Se nei testi giovanili era intesa soprattutto come estraneazione dell’operaio rispetto al prodotto del proprio lavoro, in seguito Marx ne amplia il raggio, evidenziando come il dominio del capitale si traduca in una vera e propria reificazione dell’esistenza. L’uomo non si rapporta più a sé stesso e agli altri in modo immediato ma attraverso la mediazione del valore di scambio. La coscienza, l’amore o la virtù, nel momento in cui diventano alienabili, cessano di essere espressioni autentiche dell’essere sociale e si trasformano in oggetti estranei, valutati secondo criteri estrinseci. Il richiamo ironico al “giusto valore” mostra con chiarezza la violenza epistemica del capitalismo: esso non si limita a sfruttare ma ridefinisce le categorie stesse della valutazione, sostituendo al giudizio etico la quantificazione monetaria. Il “giusto” non è più l’equo o il vero, bensì il prezzo determinato dal mercato.


La modernità capitalistica, nella lettura marxiana, coincide con un processo di disincanto radicale. I rapporti personali e comunitari, fondati su vincoli simbolici e non economici, vengono progressivamente dissolti e ricondotti a rapporti di scambio. Questa capacità di erodere forme di vita preesistenti non produce tuttavia una liberazione, bensì una nuova forma di dominio: l’assoggettamento universale al mercato come criterio esclusivo di significazione sociale.
L’attualità di questa diagnosi risulta evidente se applicata al contesto contemporaneo. L’economia digitale rappresenta la prosecuzione e l’intensificazione della dinamica individuata da Marx. L’amore si riduce a interazioni algoritmiche nelle piattaforme di dating, la coscienza politica si misura in termini di visibilità e interazioni sui social network, la scienza è spesso vincolata a logiche brevettuali e di profitto. Perfino l’attenzione, le emozioni e l’identità personale sono oggetto di valorizzazione economica, costituendo il cuore del cosiddetto capitalismo delle piattaforme.
Ciò che Marx individuava come tendenza storica trova dunque, oggi, un compimento ulteriore: l’interiorità stessa viene esposta al mercato e trasformata in risorsa. La “venalità universale” diventa il tratto costitutivo della vita sociale tardo-moderna.
Il passo marxiano riportato all’inizio, pertanto, illumina un aspetto fondamentale della sua filosofia: il capitalismo non è semplicemente un sistema economico ma un dispositivo totalizzante che trasforma i valori morali, affettivi e intellettuali in valori di scambio. L’alienazione, lungi dall’essere una condizione limitata al lavoro industriale, si configura quale condizione esistenziale dell’uomo nel mondo capitalistico. La critica marxiana, perciò, non si esaurisce nella denuncia dello sfruttamento ma si estende alla messa in luce di una mutazione antropologica: la riduzione dell’umano a merce. È in questo senso che la categoria di “venalità universale” mantiene una forza interpretativa intatta, capace di decifrare anche le forme più recenti della contemporaneità capitalistica.

 

 

 

 

 

Degni della felicità

Il comandamento dell’etica kantiana

 

 

 

 

L’etica non è esattamente la dottrina che ci insegna come essere felici, ma quella che ci insegna come possiamo fare per renderci degni della felicità”. Questa frase di Kant, contenuta nella Critica della ragion pratica (libro II, capitolo 2, par. 5), costituisce uno dei vertici della sua riflessione morale ed è anche una critica netta a ogni forma di etica strumentale, cioè a quelle dottrine morali che fanno del conseguimento della felicità l’obiettivo primario della condotta umana. In una sola frase, Kant mette in discussione un intero modo di intendere la vita morale, ancora oggi molto diffuso: l’idea che la morale sia uno strumento al servizio del benessere personale. Per Kant, questa è una confusione pericolosa.
Per capire a fondo questa affermazione, bisogna partire da una domanda: che cos’è la felicità, secondo Kant? Nella Critica della ragion pratica (libro II, capitolo 2, par. 4), il filosofo definisce così la felicità: “A meno che, nello stesso tempo, l’intera nostra natura non venisse trasformata, le inclinazioni, che in ogni caso si fanno sentire per prime, esigerebbero anzitutto la loro soddisfazione; e, congiunte con la riflessione razionale, una loro soddisfazione massima e duratura, che prende il nome di felicità”.
Questa definizione, però, è problematica: i desideri cambiano, entrano spesso in conflitto tra loro e ciò che oggi ci rende felici può domani rivelarsi fonte di insoddisfazione o rimpianto. La felicità, dunque, è una meta incerta, troppo legata al caso, alla contingenza, agli eventi esterni.
Kant non nega che la felicità sia importante per l’essere umano – anzi, riconosce che è un fine naturale per ogni individuo. Ma insiste sul fatto che la morale non può basarsi su di essa, perché i princìpi etici devono avere validità universale, indipendentemente dai gusti, dalle emozioni o dalle circostanze personali. L’etica non può fondarsi su qualcosa di così instabile come la felicità individuale.
Per Kant, l’etica è legata alla legge morale, che ciascun essere razionale può riconoscere dentro di sé tramite la propria ragione. Questa legge non si basa sul calcolo dei benefici ma sull’imperativo categorico, un principio che comanda un’azione come giusta in sé, universalizzabile, senza dipendere da altri fini. Ad esempio: “Io non devo mai comportarmi in modo tale da non ‘poter volere che la mia massima divenga una legge universale’” (Fondazione della metafisica dei costumi, sez. I).
Kant ribadisce che non esiste una “ricetta” morale per essere felici. Al contrario: può darsi che, facendo il proprio dovere, si finisca per rinunciare alla felicità. Ciò, comunque, non toglie valore all’azione; anzi, ne costituisce la grandezza morale. Pensiamo a chi dice la verità anche a costo di rimetterci, a chi si prende cura degli altri senza riceverne nulla in cambio, a chi lotta per la giustizia pur sapendo che non ne ricaverà alcun vantaggio. Queste azioni non sono felici nel senso comune ma sono moralmente degne.


La parola chiave della frase iniziale è “degni” della felicità. Kant non ritiene che la morale ci insegni a ottenere la felicità ma che ci educhi a meritarla. Questo è un passaggio decisivo. In un mondo giusto, ci aspetteremmo che chi agisce bene venga ricompensato, che la virtù sia premiata dalla felicità. Ma il mondo reale, lo sappiamo, non funziona così. La felicità è spesso distribuita in modo arbitrario e persone moralmente integre possono vivere nella sofferenza o nella sventura. Kant, però, ritiene che la ragione umana debba postulare una connessione tra virtù e felicità, perché altrimenti l’agire morale rischierebbe di apparire inutile o assurdo. Ecco, allora, l’idea del postulato dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima: non come prove teologiche ma come esigenze pratiche. Solo in una prospettiva che supera il mondo empirico – cioè in un ordine morale ideale – possiamo credere che chi agisce rettamente sarà, alla fine, felice in quanto lo merita. Non perché ha seguito una strategia ma perché è una persona giusta.
Nell’enunciato in apertura è contenuta anche una critica implicita, e fortissima, all’etica utilitarista. L’utilitarismo, in tutte le sue forme, assume che il criterio fondamentale dell’agire morale sia la massimizzazione della felicità o del piacere (individuale o collettivo). Per Kant, questo è un errore concettuale: rende la morale uno strumento subordinato a uno scopo variabile, soggettivo e incerto. Un’etica costruita su questi presupposti può giustificare azioni moralmente inaccettabili se producono un risultato “utile”. Kant rifiuta questo relativismo morale: per lui, esistono azioni che devono essere compiute (o evitate) non per le loro conseguenze ma per il principio che incarnano. È questo che distingue la persona morale dall’individuo semplicemente calcolatore.
Nel mondo contemporaneo, dominato dall’idea che ogni scelta debba portare vantaggi immediati o benessere psicologico, il messaggio kantiano è più che mai controcorrente. In un’epoca in cui la felicità è diventata un prodotto da inseguire, spesso misurato in termini di successo, visibilità, gratificazione istantanea, Kant ci costringe a guardare oltre. La domanda che ci rivolge è scomoda ma necessaria: che tipo di persona stai diventando, mentre insegui ciò che ti fa stare bene? Stai agendo in modo giusto o solo in modo utile? Sei felice o stai vivendo in modo tale da meritare la felicità, qualora dovesse arrivare?
Kant ci propone un’etica esigente, eppure profondamente rispettosa della nostra dignità razionale. Non ci promette ricompense automatiche né una vita comoda. Ci mostra che la vera grandezza dell’essere umano sta nella capacità di scegliere il bene anche quando non conviene. L’etica non serve a renderci felici, serve a renderci degni della felicità. E questa distinzione, tanto semplice quanto radicale, è ciò che fa della morale kantiana una delle conquiste più alte del pensiero filosofico occidentale.

 

 

L’uomo misura del reale

Brevi itinerari filosofici, letterari e scientifici
attorno a Protagora

 

 

 

 

 

L’enunciato di Protagora, “L’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono, per quanto sono, e di quelle che non sono, per quanto non sono”, costituisce un passaggio fondamentale nella storia del pensiero umano, una soglia concettuale oltre la quale la verità non è più un dato fisso ma un orizzonte mobile. La sua portata non è soltanto filosofica: investe anche l’immaginario letterario, le scienze cognitive, la fisica moderna e il modo in cui la contemporaneità concepisce l’individuo, la conoscenza e la realtà stessa.
Ecco come letteratura e scienza hanno, nel corso dei secoli, rispecchiato, amplificato o messo in discussione il principio relativista protagoreo.
La letteratura ha spesso assunto la funzione di specchio deformante della realtà, proprio perché capace di moltiplicare i punti di vista, le voci, le percezioni. In questo senso, la narrativa moderna è uno dei luoghi privilegiati per comprendere le implicazioni del relativismo protagoreo.
Pensiamo a Marcel Proust, la cui Recherche è interamente costruita sulla soggettività del narratore. Il tempo, i ricordi, le emozioni, tutto è filtrato dall’esperienza personale. Nulla è oggettivo, nemmeno l’amore, nemmeno il tempo. Quando Proust scrive: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”, riattualizza l’intuizione di Protagora: la realtà si misura attraverso lo sguardo umano, che la trasforma e la reinterpreta. Oppure si consideri Virginia Woolf, in particolare in To the Lighthouse o Mrs Dalloway, dove il flusso di coscienza sostituisce la narrazione oggettiva. Gli eventi non hanno più una struttura esterna ma vengono ricostruiti internamente, soggettivamente, in base alla memoria, alla sensibilità, alla contingenza del momento. La verità dei fatti è secondaria rispetto alla verità delle percezioni.
In ambito scientifico, il principio di Protagora ha trovato eco – seppur in forme diverse – nei grandi rivolgimenti del pensiero moderno, specialmente nel XX secolo. L’idea che non esista una realtà indipendente dall’osservatore ha avuto un impatto profondo in almeno due ambiti: la fisica e le neuroscienze.
La meccanica quantistica ha messo in crisi la concezione classica del mondo come qualcosa di oggettivo e indipendente. L’esperimento della doppia fenditura (double-slit experiment) mostra che il comportamento delle particelle cambia in base alla presenza o meno di un osservatore. Il principio di indeterminazione di Heisenberg afferma che non è possibile conoscere contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella con precisione assoluta: l’atto stesso dell’osservazione interferisce con l’oggetto osservato. In altre parole: la realtà microscopica non ha proprietà ben definite fino a quando non viene misurata. Ciò che è “vero” dipende dall’interazione tra soggetto e oggetto, proprio come sosteneva Protagora.
Anche le scienze cognitive hanno confermato che non percepiamo il mondo com’è ma come il nostro cervello lo elabora. Le percezioni sono costruzioni mentali, selezioni parziali e interpretazioni dell’ambiente circostante. Il neuroscienziato Antonio Damasio ha mostrato come le emozioni, il corpo, la memoria influenzino profondamente la coscienza e la decisione, rendendo l’idea di un “io razionale e oggettivo” una semplificazione mitologica.
Nel campo della percezione visiva, il lavoro di R. L. Gregory e Vilayanur Ramachandran ha messo in luce come molte delle nostre esperienze sensoriali siano illusioni ottiche codificate, dipendenti dal contesto, dall’aspettativa e dalla cultura. Ancora una volta: l’uomo non percepisce “le cose per come sono” ma per come le può percepire – esattamente il punto di Protagora.
Nel mondo contemporaneo, però, il pensiero protagoreo si trova a fare i conti con la “post-verità” – una fase storica in cui le emozioni e le convinzioni personali hanno spesso più peso dei fatti oggettivi. L’affermazione “ognuno ha la sua verità” è diventata una formula popolare che legittima la polarizzazione estrema e la disinformazione sistemica.
Le piattaforme digitali, i social media, gli algoritmi di personalizzazione creano bolle cognitive in cui ognuno vede confermata la propria visione del mondo. Qui il relativismo degenera: non diventa più strumento di apertura e dialogo ma pretesto per l’autoreferenzialità e la chiusura mentale.
Infine, è interessante notare come due autori apparentemente lontani, Søren Kierkegaard e Italo Calvino, abbiano espresso in modo complementare l’eredità di Protagora. Kierkegaard, padre dell’esistenzialismo, afferma che “la verità è soggettività”. Non nel senso che tutto si equivale ma nel senso che la verità autentica è quella vissuta, scelta, interiorizzata, non imposta dall’esterno. È l’uomo, con la sua angoscia e la sua libertà, che misura il valore delle cose. Calvino, ne Le città invisibili, costruisce mondi che esistono solo nello sguardo del viaggiatore Marco Polo. Ogni città è metafora di una prospettiva, di un’immagine interiore. “Ogni città riceve la forma dal deserto a cui si oppone”. La realtà non è mai fissa: si plasma nell’incontro tra l’uomo e il mondo.
L’idea protagorea dell’uomo come misura di tutte le cose non è un invito al disimpegno o alla soggettività cieca. Al contrario, essa spinge a una forma più alta di consapevolezza: se tutto dipende da noi, allora dobbiamo esercitare responsabilmente la nostra facoltà di giudizio. Il relativismo non è un rifiuto della verità ma un rifiuto dell’assolutismo; non è negazione del sapere ma affermazione della pluralità dei punti di vista. In un mondo sempre più complesso, globalizzato e interconnesso, l’eredità di Protagora appare in tutta la sua attualità: sfida a pensare non contro la verità ma oltre l’illusione di possederla. E, forse, è proprio in questa tensione infinita tra il limite dell’uomo e il suo desiderio di conoscere che si misura – ancora una volta – la dignità più profonda della nostra condizione umana.

 

 

 

 

Scienza, sorte e sopravvivenza
nel pensiero di Gerolamo Cardano

 

 

 

 

 

Gerolamo Cardano (1501-1576) è stato una figura liminale: sulla soglia tra due epoche, due mondi, due visioni della realtà. Nato a Pavia e vissuto nell’Italia rinascimentale, attraversata da turbolenze politiche e rivoluzioni culturali, ha incarnato, come pochi altri, la tensione tra il pensiero magico-medievale e le prime scintille del metodo scientifico moderno. Fu medico, matematico, filosofo, astrologo, inventore e scrittore. La sua produzione – immensa e disordinata – toccò tutti i campi del sapere allora conosciuti. Eppure, nonostante la vastità enciclopedica della sua opera, ciò che legava i suoi interessi era una visione filosofica radicalmente individuale: inquieta, contraddittoria, pragmatica, profondamente tragica.
Cardano parte da un presupposto esistenziale, prima che metafisico: la vita è fragile, instabile, governata da forze in gran parte fuori dal nostro controllo. L’uomo è gettato in un mondo che non può dominare completamente. Non esiste un ordine razionale garantito, né una provvidenza che dispensa senso e salvezza. La natura – e con essa la sorte – è ambigua, talvolta crudele, sempre imprevedibile. Questa visione è rafforzata dall’esperienza personale. Cardano perse due figli, fu incarcerato dall’Inquisizione, subì processi e infamie, visse tra miseria e gloria. L’autobiografia, intitolata De vita propria (scritta nel 1576, poco prima della morte, e pubblicata postuma, nel 1643), è una straordinaria confessione filosofica, dove la narrazione dei fatti si fonde con una riflessione sul senso dell’esistenza. È un testo profondamente stoico ma anche lucidamente pessimista: il dolore è inevitabile ma può essere contenuto attraverso la conoscenza e l’autodisciplina. Uno dei concetti centrali nella filosofia cardaniana è quello di caso (fortuna, eventus), che non è semplice contingenza o ignoranza delle cause. Per Cardano, il caso è una forza ontologica, una struttura profonda della realtà. Agisce nella natura, nelle relazioni umane, nei destini individuali. Ne parla ampiamente in De subtilitate rerum (1550), una delle sue opere più ambiziose, dove tenta di tracciare una mappa dell’universo, dalle particelle elementari fino all’anima. In questo trattato – influenzato da Aristotele e da autori arabi e scolastici – il mondo appare come un sistema complesso di relazioni mobili, in cui le leggi naturali convivono con l’imprevedibile. Il caso diventa, quindi, il motore nascosto di molte trasformazioni. Ma il caso è anche oggetto di calcolo. Cardano è uno dei primi a scrivere di probabilità in modo semi-formale, nel Liber de ludo aleae (1560 ca.), un trattato sui giochi d’azzardo che anticipa intuizioni matematiche moderne. Qui il caso non è più solo destino cieco ma anche uno spazio di strategia, da conoscere per orientarsi meglio nelle decisioni. Questo doppio statuto del caso – come forza irrazionale e come oggetto di razionalizzazione – è uno dei tratti più affascinanti e moderni del suo pensiero.
Cardano, come detto, vive e pensa in una soglia storica: tra il mondo magico-analogico del Medioevo e l’approccio sperimentale della modernità. Non si può comprendere la sua filosofia senza considerare la coesistenza in lui di scienza e superstizione, osservazione empirica e credenze astrologiche. È stato un medico stimato e innovatore, autore di testi fondamentali come il De methodo medendi (1565), in cui promuove la diagnosi clinica basata su segni osservabili. Ma era anche un astrologo convinto, capace di tracciare oroscopi dettagliatissimi, compreso il proprio. In De vita propria racconta come avesse previsto con decenni d’anticipo il giorno esatto della sua morte e, secondo la leggenda, avrebbe smesso di mangiare per far sì che la profezia si avverasse. Questo non fu puro delirio: per Cardano, l’astrologia è una scienza delle corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo, tra cielo e corpo umano. Le stelle non determinano in modo assoluto ma inclinano, offrono una mappa di possibilità. Anche qui emerge la filosofia dell’ambiguità: le forze cosmiche non sono onnipotenti, ma neppure ignorabili. Secondo Cardano, conoscere non è un esercizio contemplativo ma una forma di autodifesa. In un mondo precario e spesso ostile, il sapere è ciò che permette di resistere, adattarsi, anticipare il colpo. Non costruisce sistemi speculativi ma raccoglie osservazioni, esperimenti, esempi tratti dalla realtà. La sua filosofia è pragmatica, fondata sulla diversità delle situazioni e sulla molteplicità degli strumenti. È stato uno dei primi a riconoscere l’importanza dell’esperienza diretta, della verifica empirica. Ma, allo stesso tempo, non rinunciò al sogno di una scienza universale che comprendesse tutti i livelli della realtà: fisico, psicologico, spirituale. Il sapere, per Cardano, è anche una forma di controllo dell’ignoto. Studia i sogni, le malattie, le coincidenze, cercando in ognuno un principio di ordine, una regolarità, non perché sia ingenuamente fiducioso ma perché sa che senza interpretazione l’uomo è perduto. Cardano affrontò a più riprese il tema del libero arbitrio, in un’epoca in cui l’autorità religiosa lo poneva sotto minaccia (basti pensare alla condanna del determinismo astrologico da parte della Chiesa). Per lui, l’uomo è influenzato da forze esterne (biologiche, cosmiche, storiche), ma non totalmente determinato. C’è uno spazio di libertà, piccolo ma decisivo: quello della virtù, della scelta saggia, dell’azione ponderata. La libertà non è assoluta ma consiste nella capacità di navigare tra i vincoli, di gestire il proprio temperamento e adattarsi al contesto. In questo senso, il libero arbitrio diventa una forma di intelligenza situazionale, non una proprietà metafisica. L’etica cardaniana è dunque stoica, orientata all’autonomia e al controllo delle passioni, ma non fondata su dogmi. È un’etica dell’adattamento e della resilienza.
La filosofia di Gerolamo Cardano, pertanto, non si presenta mai come un sistema coerente e chiuso. È piuttosto un modo di pensare e di vivere, che riflette la complessità dell’esperienza umana. Il suo valore sta proprio in questa apertura, nella disponibilità ad accogliere il dubbio, la contraddizione, il rischio. Cardano non pretende di eliminare l’incertezza ma di farci i conti. In questo è profondamente moderno. È un pensatore del limite, della soglia, dell’ambiguità. E in un’epoca come la nostra – segnata da crisi ecologiche, instabilità politiche, trasformazioni tecnologiche rapidissime – la sua filosofia torna utile: ci insegna a pensare il mondo non come qualcosa da dominare ma come qualcosa da comprendere per sopravvivere.

Luisa Casati Stampa

La musa del sogno e della stravaganza

 

 

 

In un’epoca in cui il mondo danzava al ritmo sfrenato dei ruggenti anni Venti del ‘900, vi era una figura che brillava come una cometa solitaria nel firmamento dell’alta società europea. Luisa Casati Stampa di Soncino, marchesa di rara bellezza e fascino ineguagliabile, percorreva il suo cammino con passo felino, avvolta in un alone di mistero e stravaganza. Come un’ombra sfuggente, si muoveva tra i salotti dorati e i giardini incantati, lasciando dietro di sé una scia di meraviglia.
Con i suoi occhi verdi profondi come abissi e la pelle diafana che rifletteva la luce della luna, incarnava l’essenza stessa della bellezza eterea. Ma la sua bellezza non era solo esteriore; era un fuoco che ardeva con fiamma viva nel suo animo inquieto. La sua vita fu una continua performance, un’opera d’arte vivente che sfidava le convenzioni e i limiti del tempo.
Nata in una famiglia di ricchissimi aristocratici, industriali del cotone, Luisa scoprì presto che le regole e le aspettative della nobiltà non facevano per lei. Scelse invece di abbracciare una vita di eccessi e di teatralità, trasformando ogni giorno in un palcoscenico e ogni notte in un sogno. Si circondava di animali esotici, come ghepardi e serpenti, che passeggiavano accanto a lei come compagni fedeli. I suoi abiti, creati da stilisti visionari, erano opere d’arte a sé stanti, adornati di piume, gemme e tessuti preziosi, che brillavano sotto le luci delle feste e dei balli.


Non era solo la sua apparenza a incantare, ma anche la sua mente brillante e la sua passione per l’arte. Luisa fu musa e mecenate di numerosi artisti, ispirando pittori, scultori e poeti con la sua presenza magnetica. Tra questi, il pittore Giovanni Boldini catturò la sua essenza in ritratti vibranti, dove i suoi occhi sembravano scrutare l’anima dello spettatore, mentre Man Ray immortalò la sua figura in fotografie che trasudavano mistero e sensualità.
La sua villa a Venezia, il Palazzo Venier dei Leoni, divenne un tempio del surrealismo, un luogo dove la realtà si mescolava con la fantasia. Qui, tra specchi d’acqua e statue di marmo, Luisa organizzava feste sontuose, che sfidavano l’immaginazione, dove il tempo sembrava sospeso e ogni desiderio poteva diventare realtà.
Ma come ogni stella che brilla troppo intensamente, anche la vita di Luisa fu segnata da una profonda malinconia. Dietro il velo di stravaganza e spettacolo, si celava un’anima tormentata, sempre in cerca di qualcosa di più, di una bellezza e di una verità che sembravano sfuggirle. La sua fortuna svanì con la stessa rapidità con cui era arrivata e gli ultimi anni della sua vita furono trascorsi nell’ombra, lontano dai riflettori e dai fasti di un tempo.
Luisa Casati, una figura tanto affascinante quanto enigmatica, resta un’icona indimenticabile di un’epoca di eccessi e di sogni. La sua eredità vive nelle opere d’arte che ha ispirato e nei cuori di coloro che vedono in lei non solo una musa, ma un simbolo eterno di bellezza, libertà e malinconia.

 

 

 

 

 

L’universo in un libro

La filosofia totale di Athanasius Kircher

 

 

 

 

 

Athanasius Kircher, nato nel 1602 nella regione di Fulda, in Germania, e morto a Roma nel 1680, è stato uno dei protagonisti più singolari del panorama intellettuale del Seicento. Gesuita, poligrafo, inventore, collezionista, linguista, filosofo della natura, egittologo ante litteram, la sua figura sfugge a ogni classificazione moderna. Più che un filosofo “di sistema”, come sono stati Cartesio o Spinoza, Kircher è stato un architetto di connessioni: un organizzatore instancabile di conoscenze disparate, che riusciva a far dialogare teologia, scienze naturali, filologia e arti meccaniche all’interno di una visione unitaria del mondo. La sua filosofia non è dunque una costruzione rigidamente deduttiva ma un metodo per dare ordine alla molteplicità del reale, attraverso un intreccio di analogia, osservazione, autorità testuale e invenzione tecnica.
Il contesto gesuitico fu decisivo per la sua attività. La Compagnia di Gesù, con la sua vasta rete di missioni, collegava l’Europa a tutte le principali regioni del globo. Kircher seppe sfruttare questa rete come un vero sistema di raccolta dati. Missionari, studiosi e viaggiatori gli inviavano oggetti, manoscritti, reperti naturali, testimonianze etnografiche e osservazioni scientifiche dalla Cina, dalle Americhe, dall’India, dall’Africa e dal Medio Oriente. Tutto confluiva nel suo laboratorio e nel celebre Museum Kircherianum, che non era solo una collezione di curiosità, quanto un vero dispositivo filosofico: un luogo in cui la disposizione degli oggetti e la loro presentazione visiva diventavano un argomento in sé, un modo per mostrare la varietà del mondo come articolazioni di un ordine superiore.


Per Kircher la filosofia era innanzitutto una scienza dei segni. Natura e Scrittura erano, ai suoi occhi, due libri scritti dalla stessa mano divina. La conoscenza nasceva dall’intreccio di tre elementi: l’autorità della tradizione biblica e classica, l’esperienza diretta ottenuta tramite esperimenti, viaggi e osservazioni e l’uso dell’analogia come strumento per mettere in relazione fenomeni apparentemente distanti. Questa impostazione gli permetteva di abbracciare campi di indagine oggi separati – dalla vulcanologia alla linguistica comparata, dalla medicina alla musica – mantenendo sempre l’idea che dietro la molteplicità fenomenica si celasse un disegno unitario.
Uno dei terreni in cui Kircher sviluppò con più coerenza questa visione fu la filosofia della natura. Nel Mundus subterraneus del 1664, ad esempio, la Terra è descritta come un organismo animato, dotato di un sistema di vene e arterie sotterranee attraverso cui scorrono correnti d’acqua e di fuoco. Questa concezione organicista non si limitava a spiegare singoli fenomeni ma cercava di inserirli in un quadro globale, in cui le forze visibili e invisibili cooperano secondo un ordine prestabilito. Nonostante gli errori inevitabili dovuti alle limitate conoscenze del tempo, la sua attenzione per i meccanismi unificanti e per la lettura sistemica della Terra anticipò una sensibilità che oggi definiremmo ecologica.
Un’altra chiave del suo pensiero era il magnetismo. Nel Magnes, sive de arte magnetica del 1641, prende il magnete come modello per comprendere sia fenomeni fisici che i processi chimici, medici e perfino morali. Il magnetismo diventa, così, un paradigma di relazioni invisibili, un principio che spiega l’attrazione e la repulsione tra elementi diversi. Questo modo di ragionare riflette la sua idea che la natura agisca per legami e corrispondenze e che l’analogia sia non solo uno strumento retorico ma un principio strutturale del reale.
L’interesse per la luce e l’ombra, sviluppato nell’Ars magna lucis et umbrae in mundo (1646), è un’altra espressione di questa filosofia unitaria. Qui Kircher esamina le proprietà ottiche, la camera oscura, gli specchi, le proiezioni e, soprattutto, perfeziona la lanterna magica, trasformandola in strumento di educazione e meraviglia. Anche la scienza della visione diventa un mezzo per ordinare la conoscenza: le immagini proiettate non sono soltanto intrattenimento ma veicoli per rendere visibile l’ordine nascosto delle cose.
L’acustica e la musica occupano un posto di rilievo nella sua produzione, come dimostrano la Musurgia universalis (1650) e la Phonurgia nova (1673). La musica, per Kircher, è il riflesso sensibile di un’armonia universale che collega microcosmo e macrocosmo. Lo studio della propagazione del suono, delle eco, degli strumenti musicali e persino degli automi sonori è parte di un’indagine più ampia sulla mediazione tra ordine naturale e percezione umana.
L’indagine sulle lingue e le scritture antiche rappresenta uno degli ambiti in cui la sua filosofia si fa più ambiziosa. In opere come Polygraphia nova et universalis ex combinatoria arte directa (1663) e Turris Babel, sive archontologia (1679) affronta il problema della diversità linguistica, postulando l’esistenza di una lingua primordiale, vicina all’ebraico biblico, da cui deriverebbero tutte le altre. Il tentativo di decifrare i geroglifici egizi nell’Oedipus Aegyptiacus (1652-1655) fu un fallimento dal punto di vista moderno ma non privo di risultati indiretti: Kircher intuì correttamente il valore del copto come chiave storica per comprendere l’egiziano antico, anticipando una direzione che avrebbe portato, secoli dopo, a risultati concreti con Champollion.
La sua filosofia si estendeva anche alla religione comparata. In opere come China monumentis del 1667, raccolse e rielaborò informazioni sulle civiltà asiatiche, confrontando il confucianesimo, i culti antichi e le tradizioni cristiane. Pur mantenendo una prospettiva teologica che collocava il cristianesimo al vertice, mostrò una curiosità sincera per altre culture e una volontà di integrare elementi diversi in un quadro provvidenziale.
Anche la medicina e le politiche sanitarie furono parte del suo orizzonte. Durante le epidemie di peste, combinò teorie mediche allora correnti – che mescolavano concetti miasmatici e ipotesi sulla presenza di “semi” del contagio – con misure pragmatiche di contenimento, come quarantene e fumigazioni. In questo campo, la sua filosofia si traduceva in un approccio prudenziale: agire per ridurre il danno anche in assenza di una teoria completamente verificata.
Il Museum Kircherianum, cuore visibile della sua opera, incarnava perfettamente la sua concezione del sapere. Ogni oggetto era collocato in un ordine preciso, accompagnato da descrizioni e spesso integrato con meccanismi, automi e dispositivi dimostrativi. La disposizione stessa della collezione diventava un discorso filosofico, un argomento che mostrava come la varietà delle cose potesse essere ricondotta a un principio di unità.
Uno dei tratti più peculiari della filosofia di Kircher è che non vive solo nelle parole ma si manifesta nei libri come oggetti e nelle immagini come dispositivi di pensiero. I suoi volumi, stampati per lo più a Roma nella tipografia del Collegio Romano, sono imponenti in ogni senso: grandi formati, pagine fitte, decine o centinaia di tavole incise, frontespizi allegorici complessi, dediche solenni a sovrani e cardinali. Ogni libro è una costruzione scenografica in cui il testo e l’immagine si sostengono a vicenda, e in cui l’atto di voltare pagina diventa parte di un percorso conoscitivo.
Prendiamo il caso dell’Ars magna lucis et umbrae in mundo. Il frontespizio non è un semplice biglietto da visita: è una scena teatrale in cui il Sole e la Luna, strumenti ottici e figure mitologiche, compongono un’allegoria della luce come principio di conoscenza. Per Kircher, l’illustrazione iniziale orienta già il lettore verso un’interpretazione filosofica: la luce è la metafora primaria del divino che illumina la mente ma è anche un fenomeno fisico indagabile, manipolabile e riproducibile attraverso specchi, lenti e camere oscure. Kircher concepiva le illustrazioni come vere e proprie macchine cognitive. Nel Mundus subterraneus, le incisioni che raffigurano il “cuore” della Terra, con fiumi sotterranei e canali di fuoco, non vogliono essere semplici rappresentazioni “realistiche”: funzionano come modelli concettuali, diagrammi viventi che aiutano a visualizzare processi altrimenti invisibili. Allo stesso modo, nelle sue opere linguistiche come l’Oedipus Aegyptiacus o la Turris Babel, le tavole di alfabeti, glifi, simboli e combinazioni servono da strumenti di confronto visivo immediato, capaci di far emergere somiglianze e differenze che il solo testo scritto renderebbe meno evidenti. La Polygraphia nova, dedicata ai sistemi di scrittura e alla comunicazione universale, è quasi un atlante di codici. Le tavole con ruote combinatorie e griglie di corrispondenze permettono di tradurre parole in simboli e viceversa. È un progetto che oggi potremmo definire “interfaccia di traduzione”: un dispositivo per rendere interoperabili lingue e alfabeti diversi, radicato in una filosofia dell’unità originaria del linguaggio. Ogni volume di Kircher è anche un museo portatile. Il China monumentis, ad esempio, raccoglie vedute di Pechino, mappe della Cina, illustrazioni di piante medicinali e di strumenti scientifici importati dai gesuiti. Il testo intreccia storia, religione, geografia e aneddoti, ma sono le immagini a dare un senso di immediata realtà a un lettore europeo che non avrebbe mai visto con i propri occhi quelle terre. Lo stesso principio vale per la Musurgia universalis: organi, strumenti a corde, esperimenti acustici, diagrammi dell’armonia delle sfere riempiono le tavole, trasformando la teoria musicale in un’esperienza visiva e quasi tattile.
Kircher non si limitava a disegnare. Molti dei meccanismi descritti nei suoi libri erano reali e funzionanti, conservati e mostrati nel Museum Kircherianum. Fontane musicali, automi idraulici, camere oscure e lanterne magiche erano parte dell’esperienza di visita e riflettevano il principio che la filosofia non si deve solo leggere, ma anche vedere e sperimentare. Questo approccio prefigura quello che oggi chiameremmo “public science”: un sapere che si comunica attraverso la messa in scena e la spettacolarità.
La strategia visiva di Kircher aveva anche una funzione epistemologica. Nel Seicento, l’illustrazione era parte della dimostrazione: vedere era credere. Ma per Kircher non bastava mostrare; bisognava mostrare in modo ordinato, composito, allegorico. Le sue tavole non fotografano la realtà, la interpretano. Ogni immagine è una tesi visiva, un’ipotesi resa intuitiva. In questo senso, l’apparato iconografico è un prolungamento del ragionamento filosofico e ne diventa un canale autonomo.
L’insieme di testo, immagini, frontespizio e formato materiale produce un’estetica della totalità. Ogni libro di Kircher è un microcosmo che riflette il macrocosmo del sapere. L’ordine delle sezioni, la sequenza delle tavole, la disposizione dei capitoli costruiscono un percorso che va dalla meraviglia alla comprensione, dalla curiosità iniziale alla dimostrazione finale.
È una filosofia che rifiuta la frammentazione e che, anche nei dettagli editoriali, persegue un ideale di unità: il mondo, come il libro, è un’opera divina in cui ogni parte è collegata alle altre.
Se oggi guardiamo alla sua opera, possiamo riconoscere limiti evidenti, come la tendenza a sovrainterpretare i dati attraverso corrispondenze simboliche e la scarsa attenzione alla falsificabilità delle ipotesi. Tuttavia, proprio questi limiti si intrecciano con i suoi punti di forza: la capacità di costruire visioni sistemiche, di sfruttare infrastrutture di raccolta e diffusione delle informazioni, di tradurre la complessità in artefatti visivi e meccanici. Kircher appare così come un ingegnere del sapere, un progettista di macchine concettuali e materiali per rendere leggibile l’unità del creato nella molteplicità dei fenomeni. Anche quando sbagliava, apriva sentieri di ricerca; e quando riusciva, dimostrava che la filosofia non è solo speculazione astratta ma anche un’arte di costruire strumenti per pensare.

 

 

 

 

 

Francesco Patrizi

Contro Aristotele per una nuova filosofia
del cosmo e dello spirito

 

 

 

 

Francesco  Patrizi nacque il 25 aprile 1529 sull’isola croata di Cherso, allora parte della Repubblica di Venezia, e morì a Roma il 6 febbraio 1597. Dopo un percorso di studi che lo portò a Padova, dove inizialmente studiò medicina e poi si dedicò intensamente alla filosofia e alla filologia del greco, visse in comunità cosmopolite e viaggiò in diverse corti dell’Italia e perfino a Cipro, raccogliendo manoscritti greci – molti dei quali finirono nelle biblioteche reali europee.
La sua principale ambizione fu quella di sradicare l’aristotelismo, dominante non solo nel mondo accademico ma anche nei dibattiti teologici dell’epoca. Nelle Discussiones peripateticae Patrizi mise in discussione l’autenticità di vari scritti attribuiti ad Aristotele, denunciandone le contraddizioni interne e soprattutto l’incompatibilità con i dogmi del cristianesimo – in particolare sull’immortalità dell’anima e la creazione dal nulla. Patrizi propose una filosofia alternativa, ispirata alle idee pre-platoniche e neoplatoniche e fondata su ciò che chiamava prisca sapientia, ossia il sapere antico risalente a figure come Ermete Trismegisto, Zoroastro e i filosofi presocratici, che in Platone trovavano il culmine della tradizione originaria. Nella sua Nova de universis philosophia, pubblicata nel 1591, tentò di costruire un sistema che non fosse solo filosofico ma integrasse metafisica, teologia, cosmologia e persino estetica: un’unica struttura coerente in cui la sapienza antica e il cristianesimo si fondessero armoniosamente.


Al centro del suo sistema vi era una cosmologia alterna. Patrizi riconfigurò i princìpi fondamentali della realtà: introdusse lo spatium, lo spazio, come entità ontologicamente prima di ogni corpo, non semplice contenitore ma principio eterno e infinito. A differenza della concezione aristotelica di luogo, lo spazio patriziano non è il mero contenitore del moto ma il fondamento delle possibilità del “luogo” stesso. Da questo spazio primordiale fluisce la lux, una luce primigenia irraggiante moda da Dio, sostanza invisibile ma attiva, principio animatore e ordinatore. Questa luce emana il calore (calor), che ne rappresenta la dinamica propulsiva e, infine, l’umidità (fluor), principio passivo che accoglie la forma. In questo modello, ciò che è materiale emerge progressivamente da un piano metafisico, attraverso stadi ordinati di emanazione, senza ricorrere ai quattro elementi aristotelici.
Il cosmo che ne deriva è infinito e dotato di vita universale (pampsychia), ogni parte del cosmo è animata da una forma di anima che connette l’intero in una rete vitale, sparigliando la gerarchia geocentrica stabile e immutabile cara ad Aristotele. Patrizi rifiutò pure l’idea delle sfere celesti, affermando che le stelle si muovono liberamente nello spazio, evidenziando come la scoperta della supernova del 1572 fosse una prova dell’imperfezione e mutabilità del cielo aristotelico.
Oltre alla filosofia naturale, Patrizi coltivò riflessioni su estetica e storia. Per lui la poesia non poteva ridursi a semplice mimesi aristotelica: la fonte dell’ispirazione poetica è l’infusione divina, il furore poetico, un’estasi in cui il poeta partecipa a una verità trascendente. Tale visione si opponeva all’interpretazione fisiologica aristotelica, che riduceva l’erompere dell’ispirazione a un temperamento umorale.
In campo storico elaborò una teoria originale, che anticipò idee di scetticismo storico, definita da alcuni autori come “pirronismo storico”, secondo cui la conoscenza storica è incerta e frammentaria. Patrizi riflette sulla storia come ciclicità, legata a ritorni e cadute e sull’importanza di frammenti e vestigia del passato come chiavi di interpretazione per il presente.
Il metodo di Patrizi fu profondamente filologico ed erudito: raccolse, tradusse e commentò testi greci autentici di Proclo, Plotino e degli oracoli caldei, sostenendo che il recupero critico degli antichi fosse condizione necessaria per fondare una nuova filosofia. Questa impresa filologica era politica: intendeva ristabilire le fonti originarie come base di una riforma del pensiero occidentale.
La sua influenza sulle generazioni successive è stata significativa, benché meno celebrata di quella di altri neoplatonici. Il concetto di spazio come entità indipendente influenzò pensatori del XVII secolo come Gassendi e Henry More, che lo utilizzarono per difendere teorie atomistiche e incorporee del vuoto. Anche Galileo Galilei si mostrò ricettivo verso la revisione patriziana dell’aristotelismo, in particolare nella comprensione della dinamica e della matematizzazione della natura.
La filosofia di Francesco Patrizi, dunque, si presenta come un tentativo radicale di costruire un sistema che coniugasse metafisica, teologia, cosmologia, estetica e storia. Ancora oggi sorprende per la sua audacia intellettuale: elevando lo spazio a fondamento ontologico, ridisegnando la luce come principio creativo divino, riconoscendo l’anima nel cosmo intero e sposando un approccio filologico e storico-scettico al sapere, egli ha gettato molti semi della modernità.

 

 

 

 

Il notturno in musica

Sviluppo ed evoluzione di una forma di composizione

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Il Notturno è, come noi lo intendiamo, una composizione di musica da camera di tipo sentimentale e melodico. L’immagine di musicista che, nel nostro immaginario, simboleggia la produzione dei Notturni è Chopin. Tuttavia, il Notturno non è solamente una produzione di questo autore e la musica relativa alla notte è ben più antica della nascita di questa forma. La prima produzione legata alla notte la troviamo, infatti, in ambito liturgico, nelle Ore…

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Memoria e immortalità dell’anima nel Fedone di Platone

 

 

 

“… l’apprendere nostro non è che ricordare, è necessario avere imparato prima ciò che si ricorda al presente. E ciò non potrebbe essere, se la nostr’anima non viveva in altro luogo, innanzi che fosse entrata in questa forma di uomo; onde, ancora per questa ragione, appare che l’anima sia alcuna cosa immortale” (Platone, Fedone, XVIII).

Questa frase del Fedone è un passaggio cruciale in cui Platone, attraverso la voce di Cebete, sostiene la dottrina della preesistenza dell’anima come prova indiretta della sua immortalità. In poche righe condensa un ragionamento che intreccia epistemologia e metafisica, fondato sulla sua teoria della reminiscenza (anamnesi).
Platone parte da un’osservazione in apparenza ovvia: quando ricordiamo qualcosa oggi è perché lo abbiamo conosciuto in passato. Ma vi sono conoscenze – matematiche, morali, concettuali – che non derivano dai sensi né dall’esperienza immediata. Esse sembrano già presenti nella mente, come se vi fossero depositate prima ancora della nostra vita terrena. Se possediamo nozioni universali, come quella di uguaglianza perfetta, che non si incontrano mai nel mondo sensibile, allora dobbiamo averle apprese in un tempo anteriore alla nascita. L’ipotesi che ne consegue è chiara: l’anima esisteva già prima di incarnarsi e questo implica che la sua esistenza non dipende dalla vita corporea.
Il ragionamento di Platone ha la forma di un sillogismo: ricordare significa aver appreso in passato; alcune conoscenze sono presenti in noi fin dalla nascita e non provengono dall’esperienza sensibile; dunque, le abbiamo apprese prima di nascere; per averle apprese, dovevamo esistere già allora; e se esistevamo prima del corpo, non siamo destinati a perire con esso. Questa non è una semplice dichiarazione di fede nell’eternità dell’anima ma una deduzione basata sull’analisi delle condizioni della conoscenza.


Il passo si radica nella teoria delle Idee. Nel mondo sensibile non troviamo mai un cerchio perfetto o una giustizia assoluta, eppure ne possediamo un concetto chiaro. Non l’abbiamo derivato dai sensi ma dal contatto dell’anima con il mondo delle Idee in una condizione anteriore alla vita. Questa prospettiva rovescia l’approccio empirista: imparare non è costruire da zero, quanto risvegliare ciò che l’anima ha già contemplato.
Sotto la superficie logica, il brano ha una forte carica simbolica. L’anima appare come un viaggiatore che attraversa diverse condizioni di esistenza; la conoscenza è una luce antica velata dall’oblio, che la filosofia aiuta a riportare alla chiarezza; il corpo, seppur non apertamente definito qui, è implicito come prigione o barriera, che limita il contatto con la verità pura. Il simbolismo non è decorativo: amplifica e dà profondità alla dimostrazione, trasformandola in una narrazione implicita sulla natura e sul destino dell’essere umano.
Sul piano spirituale, l’argomento ha una funzione trasformativa. Se l’anima è immortale, la morte non è una fine ma un passaggio; se le verità supreme non derivano dai sensi, la vita filosofica diventa un esercizio di distacco dal corporeo e di avvicinamento a ciò che è eterno. La filosofia è così una preparazione al ritorno dell’anima nel luogo originario, dove essa ha contemplato la verità senza mediazioni.
Naturalmente, questo ragionamento poggia su presupposti discutibili, come l’esistenza di conoscenze innate o l’idea che la preesistenza implichi l’immortalità. Filosofi come Aristotele e, più tardi, Locke, ne hanno messo in dubbio la validità. Ma anche se si rifiuta la lettera della teoria, resta il fascino dell’intuizione platonica: il legame tra il problema del conoscere e quello dell’essere. La domanda su come sappiamo diventa domanda su chi siamo e da dove veniamo.
In chiave moderna, il passo può essere riletto senza la cornice metafisica, come una metafora di contenuti profondi della coscienza che non nascono dall’esperienza immediata ma affondano le radici in una dimensione più antica: archetipi psicologici, strutture cognitive innate o persino eredità inscritte nella nostra biologia. In ogni caso, ciò che Platone consegna è un modello di pensiero che non separa logica, mito e spiritualità ma li intreccia in un’unica visione, capace di parlare tanto al ragionamento quanto all’immaginazione e alla ricerca di senso.