La filosofia politica di John Locke è una delle fondamenta del liberalismo moderno. Il pensatore inglese, infatti, è riconosciuto come figura chiave del liberalismo classico e, soprattutto, come principale difensore della proprietà privata, intesa non solo come diritto economico ma come presupposto della libertà individuale e della legittimità del potere politico. Nella sua opera più famosa, Due trattati sul governo (1689), sviluppa una teoria articolata in cui la proprietà, il lavoro e il governo si legano in modo indissolubile. Secondo Locke, senza la protezione della proprietà non può esserci né società civile né libertà politica.
Alla base della riflessione lockiana vi è una concezione precisa dello stato di natura. Contrariamente a Thomas Hobbes, che aveva descritto lo stato di natura come una condizione di guerra permanente di tutti contro tutti, Locke propone un’immagine più razionale e ottimista. Lo stato di natura, secondo Locke, è una condizione in cui gli uomini vivono liberi, eguali e indipendenti, regolati non da leggi positive imposte dall’alto ma dalla legge di natura, che la ragione umana è in grado di conoscere e seguire. Questa legge prescrive il rispetto reciproco tra individui e impone il dovere di non ledere la vita, la libertà e la proprietà altrui.
Proprio qui emerge l’importanza attribuita da Locke alla proprietà: essa non è un’invenzione della società civile, né un artificio giuridico prodotto dalle istituzioni politiche. Al contrario, è un diritto originario, radicato nella stessa natura umana. Ogni individuo è, per natura, proprietario della propria persona e del proprio corpo e questo diritto originario si estende a tutto ciò che egli produce attraverso il proprio lavoro. L’idea lockiana di proprietà non si riduce, dunque, al mero possesso materiale ma diventa un’estensione della libertà individuale, un diritto primario e imprescrittibile.
Il concetto che consente a Locke di giustificare la proprietà privata è quello di lavoro. Nella sua argomentazione, il lavoro rappresenta l’elemento trasformativo che conferisce diritto su ciò che la natura offre in comune a tutti. Se un individuo raccoglie frutti da un albero o coltiva un campo, egli mescola il proprio lavoro con la materia naturale e la rende sua. Questo atto di appropriazione è legittimo perché fondato sull’esercizio di una facoltà personale – il lavoro, appunto – e non richiede il consenso di altri, proprio perché ciascuno ha diritto al frutto della propria operosità.
Locke compie un’operazione teorica innovativa: trasforma la proprietà in un diritto naturale, accessibile a ogni individuo attraverso il proprio impegno produttivo. La natura non è un patrimonio da sfruttare arbitrariamente ma una risorsa comune a disposizione dell’umanità, la cui appropriazione diventa lecita solo quando è accompagnata dal lavoro e dall’uso personale. L’individuo non può semplicemente dichiarare un bene come proprio: deve dimostrare di averlo trasformato con la propria fatica e intelligenza. La forza di questo argomento risiede nella sua apparente universalità e razionalità: ogni essere umano, in quanto essere dotato di ragione e di capacità lavorativa, ha diritto a diventare proprietario. Tuttavia, dietro questa affermazione si nasconde una dinamica che giustifica l’accumulazione e la disuguaglianza: chi lavora di più o ha più mezzi per lavorare può accumulare più beni e lo fa in modo pienamente legittimo. La proprietà diventa, così, il risultato di una meritocrazia fondata sul lavoro, in cui le disuguaglianze emergono come esiti naturali e non come ingiustizie sociali.

Nonostante la forte valorizzazione del diritto individuale di proprietà, Locke riconosce che esso deve essere sottoposto a limiti naturali, ricavabili anch’essi dalla legge di natura. In primo luogo, l’individuo può appropriarsi solo nella misura in cui è in grado di usare i beni senza sprecarli. L’appropriazione non deve portare alla rovina o alla distruzione delle risorse, poiché questo contrasterebbe con il fine della legge naturale, che è la conservazione dell’umanità. In secondo luogo, l’appropriazione è legittima solo se non danneggia gli altri, cioè se lascia agli altri “abbastanza e di qualità equivalente”. Questi due limiti – evitare lo spreco e garantire l’accesso equo alle risorse – mirano a preservare una sorta di equilibrio naturale e morale all’interno dello stato di natura.
Tuttavia, Locke stesso ammette che questi limiti vengono radicalmente trasformati con l’introduzione del denaro. Quando gli uomini, per convenzione, attribuiscono valore a una merce come l’oro o l’argento, che non deperisce, diventa possibile accumulare ricchezza in modo illimitato senza violare il principio del non-spreco. Se il lavoro era in origine il criterio che fondava il diritto di proprietà, ora il denaro permette di superare i vincoli naturali e legittima una crescente disparità tra gli individui. Questo passaggio segna una vera e propria svolta nella teoria lockiana. La logica morale e naturale che giustifica l’appropriazione attraverso il lavoro si combina con una nuova logica economica, che apre la strada all’accumulazione capitalistica. La proprietà privata diventa, così, non solo diritto naturale ma anche fondamento del dinamismo economico moderno, basato sulla produzione, sul commercio e sulla circolazione della ricchezza.
Il legame tra proprietà e politica diventa esplicito quando Locke affronta il tema del passaggio dallo stato di natura alla società civile. Gli individui, pur dotati di diritti naturali, si trovano esposti a rischi e conflitti, poiché nello stato di natura manca un’autorità imparziale che possa giudicare le controversie. È per questo motivo che essi decidono, razionalmente, di costituire una società politica, fondata su un contratto sociale.
Ciò che, tuttavia, rende legittimo il potere politico, secondo Locke, è il fatto che esso sia istituito per garantire e proteggere i diritti naturali degli individui e tra questi, in primo luogo, la proprietà. La famosa formula secondo cui gli uomini si uniscono in società per “la mutua conservazione delle loro vite, libertà e proprietà” indica chiaramente quale sia, per Locke, la funzione principale del governo: la tutela della proprietà privata. Di conseguenza, il potere politico deve essere esercitato secondo il principio del consenso, e deve essere limitato dalla legge. Qualunque autorità che violi i diritti dei cittadini, in particolare il diritto di proprietà, perde la sua legittimità e può essere rovesciata. Locke riconosce esplicitamente il diritto di resistenza e persino di rivoluzione, affermando che i popoli hanno il diritto di deporre un governo tirannico che minaccia la libertà e la proprietà dei cittadini.
La teoria della proprietà privata elaborata da Locke ha avuto una risonanza enorme nella storia del pensiero politico. Essa ha fornito la base teorica per la nascita del liberalismo moderno, influenzando profondamente la Rivoluzione inglese, la Rivoluzione americana e la stesura di molte costituzioni moderne. L’idea che la libertà consista nella sicurezza della proprietà privata ha permeato l’immaginario politico occidentale per secoli, ponendo le basi della democrazia liberale e dello Stato di diritto. Tuttavia, nel tempo sono emerse numerose critiche. Alcuni pensatori, come Karl Marx, hanno accusato Locke di legittimare l’accumulazione originaria del capitale attraverso una narrazione moralizzante del lavoro, ignorando le dinamiche reali di espropriazione, violenza e disuguaglianza che hanno caratterizzato la nascita del capitalismo. Secondo questa lettura, la proprietà privata non nasce dal lavoro produttivo del singolo ma dalla spoliazione sistematica di masse di individui privati dei mezzi di sussistenza. Altri studiosi hanno messo in evidenza le contraddizioni storiche del pensiero lockiano. Nonostante la sua teoria dei diritti naturali e dell’uguaglianza morale tra gli uomini, Locke fu coinvolto nella colonizzazione inglese e nella tratta degli schiavi, partecipando economicamente alla Royal African Company e contribuendo alla redazione di costituzioni coloniali che giustificavano la servitù perpetua.
La difesa della proprietà privata nella filosofia di John Locke, pertanto, rappresenta uno degli snodi fondamentali del pensiero moderno. In essa si intrecciano diritto naturale, lavoro, libertà e governo, in una costruzione teorica coerente e potente, capace di influenzare profondamente le istituzioni politiche e le idee economiche dell’Occidente. Tuttavia, proprio la sua forza teorica impone una lettura critica, capace di cogliere tanto le promesse quanto le ambiguità del progetto lockiano. La proprietà, nella sua visione, è garanzia di libertà ma anche veicolo di disuguaglianza; è fondamento del contratto sociale ma anche strumento di esclusione. Comprendere Locke, oggi, significa riflettere sulle radici della nostra modernità, e interrogarsi sul rapporto tra libertà, giustizia e potere in un mondo che continua a fondarsi, in larga parte, su quella stessa idea di proprietà.
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La caratteristica distintiva dell’AI rispetto al Leviatano di Hobbes risiede nella sua decentralizzazione. Mentre il Leviatano è rappresentato come un’entità singola e sovrana, che detiene tutto il potere, l’autorità dell’AI è distribuita attraverso una rete di attori. Questa rete include governi, aziende tecnologiche e sviluppatori indipendenti, che detengono diverse forme di potere regolatorio. Il controllo dell’AI, dunque, non è concentrato in un’unica figura sovrana, ma frammentato e diffuso attraverso un complesso sistema di governance algoritmica. Questo cambia radicalmente il modo in cui dobbiamo pensare al potere nell’era digitale.
Nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1755), Rousseau mise in scena una rivoluzione filosofica: l’uomo non nasce corrotto ma è corrotto dalla società. Il suo stato di natura, contrariamente alla concezione di Thomas Hobbes, non è caratterizzato da una guerra perpetua di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes), quanto da una pace relativa, da una semplicità istintiva, da un equilibrio biologico e affettivo. L’individuo naturale non è sociale ma è empatico. È capace di pietà, di compassione, di immedesimazione nella sofferenza altrui, anche in assenza di una morale codificata.
la mano che lo nutre, poiché critica la civiltà che gli ha permesso di scrivere un’opera filosofica. dall’altro, lo accusa di idealismo antistorico. Voltaire credeva nella perfectibilité, cioè nella capacità dell’uomo di migliorare attraverso la cultura, non concependo la nostalgia per una condizione pre-sociale. Il dissidio tra Rousseau e Voltaire si articolò su tre fronti fondamentali. Sul piano dell’antropologia filosofica, Rousseau riteneva che l’uomo fosse buono per natura e venisse corrotto dalle istituzioni, mentre Voltaire lo vedeva come egoista e violento per natura, bisognoso, quindi, di educazione e di leggi. Quanto alla storia e al progresso, il primo interpretava la storia come un processo di decadenza, in cui la civiltà aveva corrotto i costumi originari; il secondo, al contrario, la considerava un cammino di miglioramento, segnato dall’avanzata della ragione e dei diritti. Infine, sul rapporto tra natura e cultura, Rousseau idealizzava la natura come luogo della libertà originaria, mentre Voltaire la giudicava uno stato grezzo da superare attraverso la cultura. In sintesi, Voltaire esprimeva la fiducia nelle istituzioni razionali, Rousseau la denuncia delle istituzioni ingiuste.
Il Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, pubblicato nel 1755 da Jean-Jacques Rousseau, costituisce, senza dubbio, uno dei testi più significativi della filosofia politica del XVIII secolo. Con quest’opera, Rousseau rispose a un concorso indetto dall’Accademia di Digione, che poneva la seguente domanda: “Qual è l’origine della disuguaglianza tra gli uomini, ed è essa autorizzata dalla legge naturale?”. Il filosofo ginevrino non si limitò a replicare in maniera diretta, ma costruì una riflessione ampia e articolata sulle condizioni originarie dell’uomo e sul processo storico che ha portato alla formazione delle società moderne, segnate da profonde ingiustizie.