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L’amore come ascesa, vincolo e potenza

Un viaggio filosofico tra sapienza, divino e destino

 

 

 

 

L’amore è una delle forze più profonde e misteriose dell’esperienza umana e nel corso della storia della filosofia ha assunto significati diversi, riflettendo le concezioni metafisiche, etiche e antropologiche di ciascun pensatore. Da Socrate e Platone, che lo intesero come un’aspirazione al sapere e alla bellezza assoluta, fino a Nietzsche, che lo reinterpretò come espressione della volontà di potenza, l’amore è stato al centro della riflessione filosofica, rivelando la sua complessità e la sua capacità di trasformare l’individuo e la realtà che lo circonda.
Socrate non ha lasciato scritti propri, ma la sua concezione dell’amore è stata tramandata principalmente attraverso i dialoghi di Platone, in particolare nel Simposio. Qui, il filosofo ateniese riferisce gli insegnamenti ricevuti dalla sacerdotessa Diotima di Mantinea, secondo cui l’amore non è un dio, bensì un daimon, un essere intermedio tra il mondo umano e quello divino. L’amore, dunque, non possiede né la bellezza né la sapienza, ma le desidera, ed è proprio in questa mancanza che risiede la sua essenza. Per Socrate, l’amore nasce dalla tensione verso ciò che non si possiede e si manifesta come un’incessante ricerca della bellezza e della conoscenza. Il desiderio amoroso non si esaurisce nell’attrazione fisica, ma si sviluppa in un percorso di elevazione interiore che porta l’anima a rivolgersi a forme di bellezza sempre più elevate, fino alla contemplazione del bello in sé. In questo senso, l’amore è il motore della filosofia stessa, poiché solo attraverso la passione per la verità e il desiderio di conoscere si può raggiungere la vera saggezza.
Platone, ereditando e sviluppando la visione socratica, concepisce l’amore come un processo di elevazione spirituale. Nel Simposio, descrive un percorso che parte dall’attrazione per la bellezza fisica per poi trascendere verso livelli superiori di amore: dapprima il desiderio si volge alla bellezza morale e intellettuale, poi alla bellezza delle istituzioni e delle leggi, e infine alla contemplazione dell’Idea del Bello assoluto. Questa ascesa, nota come la “scala di Diotima”, mostra come l’amore, pur avendo origine nel desiderio sensibile, debba essere purificato e sublimato fino a raggiungere la sfera metafisica delle Idee. In Fedro, Platone rafforza questa concezione attraverso il mito dell’auriga, in cui l’anima è paragonata a un carro trainato da due cavalli, uno bianco e uno nero. Il cavallo nero rappresenta le passioni e gli istinti, mentre il cavallo bianco simboleggia l’impulso verso il divino. L’amore è la forza che spinge l’anima a librarsi verso il mondo intelligibile, ma solo se l’individuo riesce a dominare i suoi impulsi più bassi e a orientare il desiderio verso la verità eterna.

Aristotele si discosta dalla visione platonica e interpreta l’amore in termini più concreti e terreni, considerandolo soprattutto nella forma dell’amicizia (philia). Nell’Etica Nicomachea, distingue tra tre tipi di amicizia: quella fondata sull’utile, quella basata sul piacere e quella basata sulla virtù. Le prime due forme sono accidentali e transitorie, mentre la terza è la più elevata, poiché si basa sulla stima reciproca e sulla condivisione della vita secondo il principio della giustizia e del bene comune. L’amicizia virtuosa, secondo Aristotele, è il fondamento della vita sociale e della realizzazione personale. L’uomo è un essere naturalmente incline alla relazione e trova nella compagnia degli altri la sua piena realizzazione. Diversamente da Platone, Aristotele non concepisce l’amore come un mezzo per ascendere a una realtà trascendente, ma come un elemento essenziale per una vita felice e ben vissuta, in cui la condivisione e il rispetto reciproco costituiscono il fondamento di ogni legame autentico.
Sant’Agostino introduce una prospettiva teologica nell’analisi dell’amore, distinguendo tra l’amor Dei, che è rivolto a Dio, e l’amor sui et mundi, che è l’amore egoistico per sé e per le cose terrene. Nel suo cammino spirituale, descritto nelle Confessioni, Agostino racconta come inizialmente fosse stato dominato da un amore sensuale e disordinato, ma che solo l’incontro con Dio gli avesse permesso di comprendere il vero significato dell’amore. In La Città di Dio, Agostino oppone la civitas Dei, fondata sull’amore divino e sulla carità, alla civitas terrena, che si basa sull’amore di sé e sul desiderio di dominio. L’amore terreno, se non ordinato in funzione dell’amore per Dio, diventa una forma di idolatria e conduce alla corruzione morale. Solo chi ama Dio sopra ogni cosa può raggiungere la vera felicità, poiché in Lui si trova la pienezza dell’essere e del bene.
Marsilio Ficino, influenzato dal neoplatonismo e dalla tradizione cristiana, concepisce l’amore come un principio cosmico che unisce tutte le cose e spinge l’anima a tornare alla sua origine divina. Nel De Amore, descrive l’amore come un’energia spirituale che eleva l’individuo dal mondo materiale a quello divino, in un processo di purificazione e ascesi. La bellezza fisica è solo un riflesso della bellezza celeste e il vero amore consiste nella capacità di riconoscere questa realtà superiore e di orientare il desiderio verso di essa.
Giordano Bruno sviluppa una visione radicale dell’amore, interpretandolo come una forza cosmica che permea l’intero universo. In De gli eroici furori, l’amore è una tensione eroica verso l’infinito, un desiderio che spinge l’anima oltre i limiti imposti dalle convenzioni religiose e sociali. Per Bruno, l’universo stesso è pervaso d’amore, che si manifesta come un’energia creatrice e dinamica, capace di trasformare l’uomo in un essere libero e illuminato.
Nietzsche critica aspramente le concezioni tradizionali dell’amore, soprattutto quelle platoniche e cristiane, vedendole come espressioni di debolezza e negazione della vita. L’amore, per lui, è un aspetto della volontà di potenza, ovvero della spinta creatrice e affermativa dell’individuo. In Così parlò Zarathustra, l’amore altruistico è spesso una maschera per l’istinto di dominio, mentre il vero amore è quello che afferma la vita nella sua interezza, senza rinnegare la forza e la passione.
Dalla tensione verso il sapere di Socrate e Platone all’amicizia virtuosa di Aristotele, dall’amore divino di Agostino alla forza cosmica di Bruno, fino alla volontà di potenza di Nietzsche, l’amore si rivela come un concetto poliedrico, che attraversa la storia della filosofia trasformandosi e adattandosi alle diverse visioni del mondo.

 

 

 

 

Maggioranza e opposizione in politica

Un’analisi alla luce della dottrina dell’Io e del Non-Io di Fichte

 

 

 

La dialettica tra maggioranza e opposizione costituisce una delle dinamiche centrali del sistema democratico. Questo rapporto non è solo una questione di contrapposizione ideologica o di alternanza di potere, ma può essere interpretato attraverso un quadro filosofico più profondo. La dottrina dell’Io e del Non-Io elaborata da Johann Gottlieb Fichte offre una chiave di lettura interessante per comprendere il modo in cui queste due forze si definiscono reciprocamente e danno forma al processo politico.
Secondo Fichte, il principio fondamentale della realtà è l’Io puro, un soggetto trascendentale che si autopone come attività originaria e infinita. Tuttavia, affinché l’Io possa definirsi, deve porsi un Non-Io, un elemento esterno che rappresenta il suo limite e al contempo la condizione della sua esistenza. Questo schema dialettico può essere applicato alla politica: la maggioranza (Io) governa e si autodetermina ponendosi in relazione con l’opposizione (Non-Io), che funge da limite critico, ma anche da elemento necessario per la stessa legittimazione del potere.

Maggioranza come Io: autodeterminazione e identità politica

Nella filosofia di Fichte, l’Io assoluto è un principio attivo e autoaffermativo: esso esiste solo nella misura in cui si pone e si riconosce come attività. Analogamente, in un sistema democratico, la maggioranza politica si costituisce come tale attraverso la sua azione di governo, che implica la formulazione di un programma, la gestione del potere e la definizione delle politiche pubbliche. Tuttavia, questa identità politica non può esistere nel vuoto: essa necessita di un elemento dialettico di confronto, rappresentato dall’opposizione.
L’Io fichtiano non può essere pensato senza il Non-Io, perché è proprio il limite imposto da quest’ultimo a consentire all’Io di svilupparsi. Allo stesso modo, una maggioranza senza opposizione perderebbe la propria funzione dinamica, trasformandosi in un’entità statica e autoreferenziale. La presenza dell’opposizione costringe la maggioranza a giustificare le proprie scelte, a rispondere alle critiche e a mantenere un rapporto attivo con il corpo elettorale.
Inoltre, Fichte introduce il concetto di attività infinita dell’Io, che non può mai fermarsi, ma è costantemente in tensione verso un’autotrascendenza. Traslato nella politica, questo principio suggerisce che una maggioranza efficace non può semplicemente amministrare il potere in modo meccanico, ma deve continuamente ridefinire le proprie strategie in risposta alle sfide poste dall’opposizione e dal mutamento delle circostanze storiche.

Opposizione come Non-Io: negazione e limite costruttivo

Se la maggioranza rappresenta l’Io, allora l’opposizione incarna il Non-Io, il principio di negazione che funge da limite e da stimolo per l’evoluzione politica. Nella filosofia di Fichte, il Non-Io non è un elemento puramente passivo o distruttivo, ma è una componente essenziale del processo dialettico dell’autocoscienza. Senza un Non-Io che lo sfidi e lo delimiti, l’Io non potrebbe prendere pienamente coscienza di sé.
In politica, l’opposizione non è semplicemente una forza negativa che ostacola la maggioranza, ma una parte integrante del funzionamento democratico. Il ruolo dell’opposizione è quello di:

  • criticare le scelte della maggioranza, ponendo in evidenza i limiti e le contraddizioni;
  • offrire alternative, elaborando proposte che possano costituire un’alternativa credibile all’attuale governo;
  • rappresentare una potenziale futura maggioranza, mantenendo vivo il dibattito e permettendo una dinamica di alternanza democratica.

Nel pensiero di Fichte, l’Io e il Non-Io sono in un rapporto di opposizione reciproca, ma questa opposizione non è sterile: essa rappresenta il motore del progresso. In un sistema politico sano, il confronto tra maggioranza e opposizione non è un semplice gioco di potere, ma un meccanismo che consente lo sviluppo delle istituzioni democratiche e il miglioramento delle politiche pubbliche.

La dialettica maggioranza-opposizione come processo di autotrascendenza

Uno degli aspetti più interessanti del pensiero fichtiano è l’idea che la relazione tra Io e Non-Io non sia statica, ma costituisca un processo dinamico di sintesi. Questo si traduce in politica nel fatto che maggioranza e opposizione non sono entità rigide e immutabili, ma possono trasformarsi reciprocamente nel corso del tempo.
Quando la maggioranza decade o perde il consenso popolare, può diventare opposizione; allo stesso modo, l’opposizione può trasformarsi in maggioranza attraverso il processo elettorale. Questo continuo scambio di ruoli riflette l’attività infinita dell’Io, che in Fichte è sempre in movimento, sempre in divenire.
Dal punto di vista pratico, questa dinamica implica che:

  • la maggioranza deve essere consapevole della sua temporaneità, evitando di esercitare il potere in modo assolutistico o autoreferenziale;
  • l’opposizione deve prepararsi a governare, non limitandosi a una negazione passiva, ma costruendo progetti politici credibili;
  • il sistema democratico stesso si evolve attraverso il confronto e la sintesi tra tesi (maggioranza) e antitesi (opposizione).

In un certo senso, il concetto fichtiano di azione reciproca tra Io e Non-Io può essere visto come un’anticipazione della dialettica hegeliana di tesi, antitesi e sintesi. L’alternanza democratica tra maggioranza e opposizione rappresenta un movimento continuo che impedisce il consolidarsi di una struttura statica del potere e garantisce il progresso istituzionale.

Sintesi: verso una concezione dinamica della politica

Alla luce della filosofia di Fichte, possiamo comprendere che la politica democratica non è semplicemente un campo di battaglia tra forze contrapposte, ma un processo dialettico attraverso cui la società si autodefinisce e si sviluppa. La maggioranza esiste solo in relazione all’opposizione, e viceversa: entrambe sono elementi costitutivi della dinamica democratica.
Il pensiero fichtiano ci offre una prospettiva che va oltre la semplice lotta di potere: la dialettica Io/Non-Io applicata alla politica mostra che il conflitto tra maggioranza e opposizione è necessario e produttivo, a patto che esso si svolga in un quadro di riconoscimento reciproco.
La dottrina di Fichte, pertanto, ci insegna che la politica democratica non può essere vista come un sistema rigido di comando e obbedienza, ma come un processo vivente e dinamico, in cui il potere si definisce sempre in relazione al suo limite e in cui l’opposizione non è una semplice negazione, ma una forza attiva che contribuisce all’evoluzione del sistema stesso.

 

 

 

 

Blaise Pascal e il mistero di Dio

Ragione, fede e l’inquietudine umana

 

 

 

 

Blaise Pascal (1623-1662) è stato uno dei più grandi pensatori della storia, noto per i suoi contributi alla matematica, alla fisica e alla filosofia. Tuttavia, è nel campo della riflessione religiosa che il suo pensiero ha assunto una profondità straordinaria. Il suo interesse per la fede non fu solo teorico, ma profondamente esistenziale, frutto di una crisi interiore che lo portò a una conversione radicale. La sua opera Pensieri, rimasta incompiuta, è una delle più influenti nella storia della filosofia e della teologia occidentale, con una particolare attenzione al rapporto tra Dio, la fede e la condizione umana.
Uno dei temi centrali della riflessione pascaliana su Dio è la condizione dell’uomo. Per Pascal, l’essere umano è un essere paradossale, sospeso tra due estremi: la sua grandezza e la sua miseria. Da un lato, l’uomo è dotato di ragione, capace di comprendere il mondo e di aspirare all’infinito; dall’altro, è fragile, soggetto alla sofferenza e alla morte. Questa consapevolezza della propria miseria lo getta in una profonda inquietudine.
Secondo Pascal, l’uomo cerca disperatamente di fuggire da questa condizione attraverso il divertissement, il “divertimento” inteso non come svago innocuo, ma come fuga dalla realtà: il lavoro incessante, i piaceri, le ambizioni mondane. Ma nessuno di questi espedienti può colmare il vuoto interiore. L’unica risposta autentica alla condizione dell’uomo è Dio.
Tra le argomentazioni più celebri di Pascal vi è la cosiddetta scommessa su Dio, una delle più affascinanti riflessioni filosofiche sull’esistenza di Dio. Pascal parte dal presupposto che la ragione umana non possa dimostrare con certezza l’esistenza di Dio, ma nemmeno la sua inesistenza. Di fronte a questa incertezza, l’uomo deve comunque fare una scelta: credere o non credere.

Pascal presenta la fede in Dio come una scommessa razionale. Se si sceglie di credere e Dio esiste, si ottiene la felicità eterna; se Dio non esiste, non si perde nulla di veramente importante. Al contrario, se si sceglie di non credere e Dio esiste, si rischia la dannazione eterna. Pertanto, dal punto di vista puramente pragmatico, conviene credere in Dio.
Tuttavia, Pascal non riduce la fede a un mero calcolo utilitaristico. Egli riconosce che la fede non è una semplice scelta razionale, ma un dono di Dio. La scommessa, dunque, è solo un primo passo: essa può spingere l’individuo a cercare Dio, a vivere come se Dio esistesse e attraverso questo cammino la fede autentica può nascere nel cuore dell’uomo.
Un altro aspetto fondamentale del pensiero di Pascal su Dio è il rapporto tra ragione e fede. Se da un lato la ragione è uno strumento potente, dall’altro essa ha dei limiti invalicabili. Pascal afferma che “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”, sottolineando che l’esperienza di Dio non è riducibile a un ragionamento logico, ma coinvolge la dimensione interiore dell’uomo.
Per Pascal, la ragione può condurre fino a un certo punto, ma non è sufficiente per raggiungere la verità ultima. Solo l’esperienza personale e la grazia divina possono portare alla vera conoscenza di Dio. Questo approccio si contrappone sia al razionalismo cartesiano, che ritiene la ragione capace di giungere alla verità assoluta, sia allo scetticismo che nega la possibilità di qualsiasi conoscenza certa su Dio.
Pascal non considera la fede un semplice atto intellettuale, ma un’esperienza esistenziale profonda. Nel Mémorial, un breve testo scritto in seguito a un’intensa esperienza mistica avvenuta nella notte tra il 23 e il 24 novembre 1654, descrive la sua visione interiore di Dio con parole di grande fervore: “Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti. Certezza, certezza, sentimento, gioia, pace”.
Questa esperienza segna per Pascal un punto di svolta, rafforzando la sua convinzione che Dio non è un concetto astratto, ma una presenza viva e personale. La fede, dunque, non è il risultato di un’argomentazione filosofica, ma di un incontro trasformante con Dio.
Il pensiero religioso di Pascal ha avuto un’influenza duratura sulla filosofia e sulla teologia. La sua concezione della fede come esperienza del cuore ha anticipato molte riflessioni esistenzialiste, mentre la sua critica alla ragione assoluta ha contribuito alla nascita del pensiero moderno sulla limitatezza della conoscenza umana.
La sua scommessa su Dio continua a essere oggetto di dibattito nella filosofia della religione e nella teologia contemporanea. Alcuni la vedono come un’argomentazione pragmatica brillante, altri la criticano per la sua apparente riduzione utilitaristica della fede. Tuttavia, al di là delle interpretazioni, il pensiero di Pascal continua a stimolare la riflessione su Dio, sulla condizione umana e sul significato della fede.

 

 

 

 

Il visionario di Friedrich Schiller

Tra illusione e potere, un capolavoro incompiuto
dell’Illuminismo gotico

 

 

 

 

Il visionario (Der Geisterseher) è un romanzo incompiuto di Friedrich Schiller, pubblicato in forma seriale tra il 1787 e il 1789 sulla rivista Thalia. L’opera si inserisce in un momento cruciale della produzione letteraria dell’autore, in cui si confronta con il genere del romanzo e con tematiche che anticipano le sue future riflessioni filosofiche e politiche. Il testo, pur rimanendo frammentario, ebbe un impatto significativo sulla letteratura successiva, in particolare per la sua capacità di fondere il mistero con la speculazione razionale e per la sua influenza sulla narrativa gotica e sul romanzo filosofico.
L’idea di Il visionario nacque in un periodo in cui Schiller era affascinato dalle questioni legate al mistero, al soprannaturale e alle trame cospirative. Il contesto storico e culturale dell’epoca, segnato dall’Illuminismo e dalla crescente diffusione delle società segrete, si riflette nella narrazione, che percorre la tensione tra razionalità e superstizione, tra libero arbitrio e manipolazione.
La storia si sviluppa attorno a un protagonista, un giovane principe tedesco in viaggio a Venezia, il quale si ritrova coinvolto in un intricato gioco di inganni e illusioni orchestrato da una società segreta. L’atmosfera della città lagunare, con le sue calli oscure e le sue maschere enigmatiche, diventa il perfetto scenario per un racconto che mescola elementi gotici, filosofici e politici.
Nella prima fase della composizione, pubblicata tra il 1787 e il 1788, Schiller introduce il protagonista e ne delinea il carattere, presentandolo come un uomo razionale ma vulnerabile alle seduzioni dell’ignoto. L’incontro con un misterioso armeno, figura ambigua e inquietante, segna l’inizio di un percorso che metterà alla prova la sua capacità di discernere la realtà dall’inganno.
Nella seconda fase, tra il 1788 e il 1789, la tensione narrativa cresce. Il principe viene trascinato in eventi sempre più inquietanti, in cui i confini tra realtà e visione si fanno labili. Attraverso una serie di apparizioni misteriose, inganni raffinati e situazioni che sfidano la logica, Schiller costruisce un crescendo di suspense che tiene il lettore in bilico tra il razionale e l’occulto. Tuttavia, l’opera rimane incompiuta, lasciando aperti molti interrogativi sulla sorte del protagonista e sul reale significato degli eventi narrati. La causa dell’interruzione potrebbe essere attribuita all’evoluzione degli interessi di Schiller, sempre più orientato verso il teatro e la filosofia classica, oltre che alla difficoltà di portare a compimento una trama tanto intricata e sfuggente.

L’opera affronta diverse tematiche centrali nel pensiero di Schiller e nella cultura illuminista del tempo. Il contrasto tra illusione e realtà è uno degli elementi cardine del romanzo. Il protagonista si trova costantemente in bilico tra ciò che percepisce e ciò che realmente accade, costretto a interrogarsi sulla validità dei suoi sensi e sulla possibilità che il mondo che lo circonda sia costruito su una finzione orchestrata da forze occulte. Questo tema riflette il dibattito illuminista sulla ragione e sulla superstizione, in un’epoca in cui la fede nel progresso e nella razionalità si scontrava con le ombre della tradizione e dell’ignoto.
Un’altra tematica fondamentale è quella della manipolazione e del potere. Nel corso della narrazione, il principe diventa vittima di un sofisticato meccanismo di controllo, orchestrato da una società segreta che sembra volerlo condurre verso un destino prestabilito. L’opera mette in luce i pericoli dell’inganno e della coercizione psicologica, ponendo interrogativi sul libero arbitrio e sulla capacità dell’individuo di resistere alle forze che cercano di influenzarlo. Questo aspetto anticipa il tema della cospirazione e della paranoia, che diventerà centrale in molta narrativa moderna.
Il conflitto tra libero arbitrio e destino è un altro nodo tematico importante. Il principe è convinto di essere padrone delle proprie scelte, ma si accorge progressivamente di essere intrappolato in una rete di eventi che sembrano guidarlo in una direzione precisa. L’angoscia derivante da questa consapevolezza richiama il dibattito filosofico sull’autodeterminazione e sul ruolo delle forze esterne nel plasmare la volontà umana.
L’elemento gotico e il soprannaturale giocano un ruolo chiave nella costruzione dell’atmosfera del romanzo. Schiller utilizza ambientazioni oscure, apparizioni enigmatiche e figure inquietanti per creare un senso di incertezza e di minaccia costante. La presenza dell’armeno, personaggio dal carattere quasi metafisico, introduce una dimensione esoterica che si lega alla tradizione del romanzo gotico nascente. Tuttavia, il racconto non si abbandona completamente al fantastico: Schiller lascia sempre aperta la possibilità di una spiegazione razionale, mantenendo l’equilibrio tra il soprannaturale e il dubbio illuminista.
Pur essendo un’opera incompiuta, Il visionario costituisce un tassello fondamentale nella produzione di Schiller e nella letteratura del XVIII secolo. Il romanzo si distingue per la sua capacità di intrecciare suspense e riflessione filosofica, anticipando molti dei temi che diventeranno centrali nel pensiero dell’autore e nella narrativa moderna. La tensione tra ragione e mistero, tra libertà e manipolazione, rende Il visionario un’opera di straordinaria attualità, capace di affascinare i lettori non solo per il suo intrigo narrativo, ma anche per la profondità delle questioni che solleva.

 

 

 

 

 

Il nichilismo come crisi e condizione

Nietzsche e Cioran a confronto

 

 

 

 

 

Il nichilismo, concepito come rifiuto dei valori tradizionali e confronto diretto con il vuoto che permea l’esistenza, rappresenta un nodo fondamentale nella filosofia moderna. Friedrich Nietzsche ed Emil Cioran sono tra i pensatori che meglio hanno saputo indagare il significato e le implicazioni di questa condizione. Sebbene entrambi abbiano affrontato il nichilismo con intensità e lucidità, le loro riflessioni divergono profondamente per metodo, obiettivi e prospettive. Mentre Nietzsche vede nel nichilismo una crisi necessaria per la creazione di nuovi valori, Cioran lo abbraccia come una verità ineluttabile, un orizzonte insuperabile della condizione umana.
Per Nietzsche, il nichilismo è una condizione storica e culturale che si manifesta in seguito alla “morte di Dio”, espressione che sintetizza il crollo delle certezze metafisiche e religiose che per secoli avevano sostenuto l’edificio dei valori occidentali. La morte di Dio segna la fine dell’idea che esista un ordine assoluto e trascendente che conferisce significato alla vita. In un mondo privo di fondamenti divini od oggettivi, l’uomo si trova di fronte al vuoto e alla necessità di affrontare il nichilismo. Nietzsche distingue tra “nichilismo passivo” e “nichilismo attivo”. Il primo è caratterizzato dalla rassegnazione, dall’accettazione impotente del vuoto di senso, che conduce al decadimento morale e culturale. È una forma di nichilismo distruttiva, che si limita a constatare la crisi senza proporre alcuna via d’uscita. Il nichilismo attivo, invece, è il momento in cui l’uomo riconosce la caduta dei valori tradizionali e decide di crearne di nuovi. Questo processo culmina nell’Oltreuomo (Übermensch), un individuo capace di affermare la vita nonostante la sua mancanza di significato trascendente. Al centro del pensiero di Nietzsche c’è l’idea che la vita stessa possa e debba essere il valore supremo. L’eterno ritorno, altro concetto cardine della sua filosofia, invita a immaginare di vivere ogni istante come se dovesse ripetersi all’infinito, richiedendo così un amore incondizionato per l’esistenza. Nietzsche, pertanto, trasforma il nichilismo in un’opportunità per la rinascita, proponendo una visione tragica ma vitalistica, che invita a “dire sì” alla vita in tutte le sue contraddizioni.
Emil Cioran, invece, non concepisce il nichilismo come un fenomeno storico da superare, ma come una realtà ontologica che definisce l’essere umano. Per Cioran, il vuoto non è una crisi contingente, ma l’essenza stessa della condizione esistenziale. Nella sua opera, la vita è descritta come intrinsecamente priva di senso, una condanna a cui l’uomo non può sfuggire. Questo pessimismo radicale non si traduce, però, in una chiamata all’azione o al rinnovamento, ma in una forma di contemplazione disincantata del nulla. Cioran abbraccia il nichilismo con un atteggiamento che oscilla tra la malinconia e l’umorismo nero. I suoi aforismi e saggi riflettono un pensiero che non cerca redenzione, ma si limita a osservare con lucidità l’assurdità dell’esistenza. La sofferenza, per Cioran, non è un accidente della vita, ma la sua struttura fondamentale. Tuttavia, questo non lo conduce a un nichilismo disperato: il suo approccio al nulla è intriso di una sorta di ironia tragica, un distacco che permette di convivere con l’insopportabilità dell’essere. A differenza di Nietzsche, Cioran non intravede alcuna possibilità di superare il nichilismo. Anzi, egli critica ogni tentativo di attribuire un senso all’esistenza come una forma di autoinganno. Anche il linguaggio che usa riflette questo atteggiamento: se Nietzsche si esprime con toni vibranti e visionari, Cioran adotta un registro intimo, frammentario, che rende la sua scrittura un’espressione diretta dell’esperienza esistenziale.

La principale differenza tra Nietzsche e Cioran risiede nel loro atteggiamento verso la possibilità di rispondere al nichilismo. Nietzsche vede nel vuoto un’occasione per ricostruire, per immaginare una nuova scala di valori che permetta all’uomo di vivere pienamente nonostante l’assenza di un significato ultimo. Questo slancio vitale rende il suo nichilismo dinamico e propositivo. Al contrario, Cioran si rifiuta di cercare una via d’uscita: il nichilismo, per lui, non è un problema da risolvere, ma una verità ineludibile. Questo lo conduce a un pessimismo radicale, che però non è privo di una sua eleganza estetica e di un’ironia sottile.
Anche il rapporto con la sofferenza li distingue profondamente. Per Nietzsche, la sofferenza è un elemento imprescindibile della vita, qualcosa che va accettato e persino valorizzato come parte del processo creativo. Per Cioran, invece, la sofferenza è la prova della vanità dell’esistenza, il segno della sua intrinseca inutilità. Eppure, in entrambi si trova un invito implicito a confrontarsi con il nulla senza illusioni, ciascuno secondo la propria prospettiva.

 

 

 

 

 

L’utopia realizzabile

La visione politica di James Harrington
in La Repubblica di Oceana

 

 

 

 

James Harrington, filosofo e teorico politico inglese, scrisse La Repubblica di Oceana nel 1656, in un periodo storico segnato da profondi cambiamenti politici e sociali in Inghilterra. L’opera fu pubblicata durante il Commonwealth di Oliver Cromwell, successivo alla Guerra civile inglese (1642-1651) e alla decapitazione del re Carlo I nel 1649. In un’epoca in cui il vecchio ordine monarchico veniva messo in discussione e le idee repubblicane iniziavano a guadagnare terreno, Harrington propose un modello di governo che si poneva quale alternativa sia al dispotismo monarchico sia ai rischi di instabilità associati alla democrazia diretta. La Repubblica di Oceana rappresenta, quindi, una risposta politica e intellettuale ai problemi del suo tempo, fornendo la visione di una società razionale, equilibrata e stabile.
Il contesto culturale e politico del Seicento inglese fu caratterizzato da una crescente riflessione sulla sovranità, sulla proprietà e sulla partecipazione politica. La rivoluzione puritana e la successiva instaurazione del Commonwealth avevano sollevato interrogativi fondamentali sull’organizzazione del potere e sul ruolo delle istituzioni. Harrington, influenzato dai classici greci e romani, nonché dalle opere di Machiavelli, si fece portavoce di un’idea di governo basata su princìpi razionali e sulla virtù civica. La sua opera si distingue per l’intento pratico: non si limita a immaginare una società ideale, ma si propone di offrire soluzioni concrete e applicabili al contesto inglese del suo tempo.
Il cuore della riflessione di Harrington risiede nella connessione tra proprietà terriera e potere politico. Secondo il filosofo, il controllo della terra determina inevitabilmente l’equilibrio delle forze politiche in una società. La concentrazione delle proprietà in poche mani conduce a governi oligarchici o tirannici, mentre una distribuzione più equa della terra garantisce stabilità e partecipazione democratica. Harrington propone, quindi, una redistribuzione della proprietà fondiaria come fondamento di una società giusta e di un governo repubblicano. Questo approccio evidenzia l’importanza delle strutture economiche come base per l’organizzazione politica, anticipando tematiche che sarebbero poi emerse con forza nel pensiero politico moderno.

Un altro elemento centrale di La Repubblica di Oceana è la sua struttura istituzionale, che riflette un modello di governo misto. Harrington immagina una repubblica in cui il potere sia distribuito tra diverse istituzioni, ognuna delle quali rappresenta un principio politico distinto. Il Senato rappresenta l’aristocrazia e si occupa della deliberazione e della formulazione delle leggi, mentre l’assemblea popolare, espressione della democrazia, approva le decisioni legislative. A questi due organi si aggiunge un esecutivo, incaricato di applicare le leggi e garantire l’equilibrio tra le parti. Questo sistema misto si ispira alla costituzione dell’antica Roma e alle riflessioni di Polibio sulla combinazione di monarchia, aristocrazia e democrazia, adattandole al contesto moderno di Harrington. Per prevenire la corruzione e il consolidamento del potere, Harrington introduce l’idea della rotazione degli incarichi pubblici attraverso meccanismi di sorteggio ed elezione, una proposta che mira a garantire la partecipazione diffusa e a evitare che una classe politica si trasformi in una casta privilegiata.
L’etica politica di Harrington ruota intorno al concetto di virtù civica, considerata il fondamento di una società stabile e giusta. In Oceana, i cittadini sono attivamente coinvolti nella vita politica e mettono il bene comune al di sopra degli interessi personali. La partecipazione attiva e consapevole alla res publica è il principio cardine su cui si basa la stabilità della repubblica. Harrington ritiene che una società virtuosa possa essere costruita solo attraverso un’educazione politica e una distribuzione equa delle risorse, che impediscano la formazione di disuguaglianze eccessive.
Sul piano delle influenze e dei confronti, La Repubblica di Oceana si colloca nel filone delle utopie politiche del Seicento, ma si distingue per la sua attenzione alle implicazioni pratiche delle teorie proposte. Rispetto a opere precedenti, come La Città del Sole di Tommaso Campanella, pubblicata nel 1602, l’approccio di Harrington è meno idealistico e più orientato a rispondere alle esigenze concrete del suo tempo. Campanella immagina una società teocratica e proto-comunista, in cui la proprietà privata è abolita e il governo è affidato ai sapienti, secondo una visione influenzata dal neoplatonismo e dalla religiosità. Harrington, invece, considera la proprietà come una componente essenziale dell’ordine politico e si concentra su una redistribuzione equa piuttosto che sulla sua eliminazione.
Un altro confronto significativo è con Nuova Atlantide di Francis Bacon, pubblicata postuma nel 1626. Bacon descrive una società ideale basata sul progresso scientifico e tecnologico, in cui l’organizzazione politica è subordinata alla ricerca del sapere e al benessere collettivo derivante dall’innovazione. Sebbene Harrington condivida l’idea di una società razionale, la sua attenzione si rivolge principalmente agli aspetti istituzionali e alla gestione del potere, piuttosto che alla scienza o alla tecnologia.
Infine, un paragone interessante può essere fatto con Utopia di Thomas More, pubblicata nel 1516, che, pur appartenendo a un contesto storico e culturale diverso, condivide con Oceana il desiderio di riformare la società attraverso un modello ideale. Tuttavia, mentre l’opera di More si presenta come una narrazione satirica che solleva interrogativi senza offrire soluzioni applicabili, Harrington costruisce un sistema politico dettagliato e concretamente realizzabile.
L’eredità de La Repubblica di Oceana è significativa, in quanto anticipa molte delle idee che sarebbero state sviluppate nel pensiero politico moderno. Harrington influenzò teorici come John Locke e Montesquieu, i quali ripresero i suoi concetti di separazione dei poteri e di equilibrio politico. L’opera ispirò anche i Padri Fondatori degli Stati Uniti, che ne trassero spunti per la redazione della Costituzione americana. In definitiva, La Repubblica di Oceana costituisce un punto di incontro tra utopia e realismo politico, una visione ambiziosa di una società giusta e stabile che riflette le tensioni e le speranze del Seicento inglese, ma che continua a offrire spunti di riflessione anche nella contemporaneità.

 

 

 

 

La poetica della luna: Giacomo Leopardi e Lucio Dalla

 

 

 

Giacomo Leopardi e Lucio Dalla. Un poeta-filosofo e un cantautore. Cosa possono avere mai in comune? Lo scoprirete presto! Voglio, però, condurvici pian piano, cominciando da un elemento naturale, visibile, di notte, da qualche parte nel cielo: la luna. La luna ha eccitato la fantasia dei poeti sin dalla notte dei tempi. Gli antichi greci la deificarono, arrivando a conferirle una triplice personificazione: Proserpina, moglie di Ade e regina degli Inferi (simbolo della luna calante); Artemide, dea della caccia (simbolo della luna crescente), e Selene, la luna propriamente detta (la luna piena). Anche Dante Alighieri cedette al fascino di questa triplice personificazione e, nel canto X dell’Inferno, ai versi 79-81, mise in bocca a Farinata degli Uberti, fiero capo ghibellino, una profezia post eventum, scritta, cioè, quando gli eventi predetti erano già accaduti: “Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge/ che tu saprai quanto quell’arte pesa”. Dante si riferiva proprio alla luna (Proserpina, la donna che qui regge, in una commistione tra mitologia classica, dottrina cristiana e astronomia medievale), e le cinquanta volte in cui si sarebbe “riaccesa” rappresentavano i cinquanta mesi mancanti alla sua condanna all’esilio. Più vicino a noi, come non citare i tenerissimi versi di uno dei miei migliori conterranei: il principe De Curtis, Totò, il quale, nella poesia “A cunsegna”, esplora il topos poetico della luna quale benevola protettrice degli innamorati: “’A sera quanno ‘o sole se nne trase/ e dà ‘a cunzegna a luna p’ ‘a nuttata/ lle dice dinto ‘a recchia: I’ vaco ‘a casa:/ t’arraccumanno tutt’ ‘e nnammurate”. La luna, quindi, è il trait d’union tra i due protagonisti di questo mio breve scritto.

 

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Nonostante tutto ciò, mi si potrebbe obiettare: “Cosa c’entra uno dei più grandi, se non il più grande poeta italiano con Lucio Dalla, un cantante, seppure famoso? Cosa possono avere in comune un uomo che, a 10 anni, aveva una cultura vasta quanto quella di un paio di centenari messi insieme con un personaggio che ha giusto terminato le scuole medie? Cosa c’entra, dunque, Giacomo Leopardi con Lucio Dalla? Posso assicurarvi che hanno molti punti in comune e cercherò, qui, di esporveli nel modo più breve ma più esauriente possibile. Il materialismo del pensiero marxista, dal punto di vista filosofico-letterario (ciò, in Italia, è avvenuto soprattutto grazie all’opera di Antonio Gramsci), ha avuto il merito di permettere ai critici di concentrarsi su problematiche, relative agli autori, non soltanto di poetica ma anche, e soprattutto, di vita reale, materiale. Ecco perché, allora, gli elementi biografici di un autore assumono una importanza fondamentale nel tentativo di imagesricostruire e motivare l’arte dello stesso. Detto questo, andiamo ad analizzare cosa successe nelle vite di questi due personaggi, Leopardi e Dalla, in quella fase delle loro vite dove, per usare una felice espressione, andò in scena, per entrambi, il “preludio del genio”. Giacomo Leopardi, il conte Giacomo Taldegardo Leopardi (immagine a destra), nacque a Recanati, il 28 giugno 1798. Era figlio di genitori molto particolari. Il padre Monaldo, nobile, intellettuale, era il responsabile del dissesto economico familiare. Un uomo che viveva con la testa tra le nuvole, o, meglio, tra i libri, e incapace ad amministrare i beni di famiglia, terreni, fattorie, campi. Fu scrittore anch’egli, eclissato, ovviamente, dalla fama del figlio. Fu lui ad istillare nel piccolo Giacomo l’amore per le lettere. Aveva una biblioteca prodigiosa, visitabile, ancora oggi, a Recanati. Era un brav’uomo, a modo suo affettuoso con i dieci figli, ma, ripeto, totalmente incapace nella gestione degli affari di famiglia. La madre, Adelaide dei marchesi Antici, fu l’amministratrice economica della casa, riuscendo anche ad assestare il patrimonio, a prezzo di grandi sacrifici. Una donna dura, che non mostrava affetto, arida, molto religiosa, ai limiti della superstizione. Una figura, quindi, tutt’altro che materna. Il rapporto di Leopardi con la madre è, ancora oggi, oggetto di studio. Vi è un solo luogo nella sua opera, nelle Operette morali, in cui il poeta identifica la cattiva Natura con la madre, ma è comunque troppo poco per ritenere che sia l’interpretazione preponderante del suo rapporto con donna Adelaide. Lucio Dalla nacque a Bologna, il 4 marzo 1943. Il padre, Giuseppe, era un commesso viaggiatore, poco impegnato nel suo lavoro, quanto piuttosto nelle sue passioni, la caccia e la pesca. Un bell’uomo, alto e prestante. Morì di tumore quando Lucio aveva solo 6 anni. Il dolore di quella perdita avrebbe accompagnato il cantante per tutta la vita, influenzandone anche la poetica. La madre, Iole, era una sarta, una donna energica e risoluta, che dovette farsi carico dell’educazione del figlio e della sua crescita, in una Italia che usciva devastata dalla guerra. Una figura fondamentale nella vita di Lucio. La balena bianca, come è stata spesso chiamata. Giacomo Leopardi trascorse l’infanzia e la prima giovinezza nel palazzo di famiglia a Recanati, più propriamente, nella biblioteca del palazzo, in lunghissime ore di studio. A quindici anni già conosceva il latino, il greco, l’ebraico, l’inglese e il francese. Componeva trattati di astronomia e di chimica. Era già un vero e proprio erudito. Aveva mostrato, quindi, a quell’età, le caratteristiche del genio letterario che lo avrebbero consacrato alla fama immortale. Lucio Dalla (immagine a sinistra) ebbe, in sua madre, il vero incentivo della sua carriera d’artista. La donna lo faceva esibire prima delle sfilate di moda che teneva d’estate, a Manfredonia, dove si recava per vendere i capi delle sue collezioni. A dieci anni, Lucio era un animale da palcoscenico. Ci sono delle bellissime fotografie nel libro di Angelo Riccardi, “Ti racconto Lucio Dalla” (2014), che lo ritraggono con gli abiti di scena. Fa tenerezza. Era davvero un bel bimbo, disinvolto, sicuro di sé. Gli insuccessi scolastici, l’abbandono della scuola al quinto ginnasio e l’amore per la musica, per quel clarinetto, che gli era stato regalato da un amico di famiglia, il forsennato studio dello strumento, da autodidatta, e l’arrivo a Roma, lo proiettarono nel mondo della musica, grazie anche alla protezione di Gino Paoli. Questi, infatti, gli aveva consigliato di affrancarsi da I Flippers e di intraprendere la carriera solista. Appare chiaro, quindi, come entrambi, sin dall’infanzia, manifestassero quelle qualità che, poi, avrebbero sublimato nelle proprie creazioni artistiche. Vi ho già detto della luna. La poetica di Leopardi e di Dalla è una poetica naturalistica, in cui con gli elementi della natura è costante. Sono riuscito a contare almeno cinquanta occasioni in cui, nelle canzoni di Dalla, compaia la luna. Di meno nelle poesie e prose di Leopardi. Questo dialogo dei due, però, si compie in modi differenti. Dalla vi dialoga come un innamorato che si rivolge al garante del suo amore per la natura. Nella poetica dalliana la luce della luna illumina l’esistenza notturna degli uomini, nella notte della vita, quando le cose non appaiono ben chiare e definite nei loro contorni. La luna di Dalla ha anche una funzione salvifica e apotropaica. Pensate ai versi di Caruso: “Ma quando vide la luna uscire da una nuvola/ gli sembrò più dolce anche la morte”. In Leopardi, invece, le invocazioni alla luna sono disperate richieste di aiuto contro una Natura che il poeta giudica essenzialmente maligna e dannosa per gli uomini. Sono grida infelici di una grande mente che si sforza di ricercare qualche positività in un sistema di elementi che lui giudica pernicioso per l’uomo. Questa concezione viene fuori, principalmente, nel Canto notturno di un pastore errante per l’Asia e in Alla luna, opere al cui dialogo con l’astro l’autore affida lo svelamento delle proprie concezioni filosoficheScreen-shot-2011-10-22-at-1.26.05-AM-425x450 sulla natura, sulla vita e sulla condizione degli uomini. Un altro elemento che accomuna i due autori, è un concetto di derivazione classica: il binomio Eros-Thanatos, Amore e Morte. Esso sottintende al capolavoro di Dalla, Caruso, perché ha attraversato anche la sua vita. Lucio si è portato dietro, per sempre, il ricordo della tragica fine del padre e, altre volte nella vita, ha perso persone a lui care. Questi sentimenti sono presenti nella sua canzone più celebre. Il grande tenore Enrico Caruso, nell’ora della morte, è innamorato della fanciulla sorrentina, alla quale sta dando lezioni di canto. L’amore, Eros, nell’ora della Morte, Thanatos, la rende più dolce, in un binomio indissolubile. “Amore e morte”, invece, è il titolo di un canto di Leopardi, scritto all’epoca dello sfortunato amore per Fanny Targioni Tozzetti, per cui, certamente risente della delusione per la mancata corrispondenza amorosa. Anche per Leopardi, Amore e Morte rappresentano un binomio indissolubile: “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ ingenerò la sorte”, recita il citato canto. Nella concezione leopardiana, tipicamente estremista, la morte non è soltanto un male a cui bisogna rassegnarsi, ma, vista in contrapposizione con il dolore, la malattia e le pene dell’esistenza, assume connotazioni positive, come una sorta di miglioramento rispetto allo stato abituale dell’uomo, una liberazione dai laceranti dolori dell’animo. La morte è un punto di arrivo, una soluzione finale, una meta verso cui tendere, un traguardo indolore e quieto, che rappresenta la fine di ogni tormento. Un ultimo, importante legame, che accomuna questi due personaggi straordinari: l’amore per Napoli. Quello di Lucio Dalla per Napoli, per Sorrento e per il Sud Italia, come è ormai noto, grazie anche alle recenti pubblicazioni di Raffaele Lauro (“Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, 2015, “Lucio Dalla e San Martino Valle Caudina – Negli occhi e nel cuore”, 2016, e “Lucio Dalla e Sorrento Tour – Le tappe, le immagini e le testimonianze”, 2016), è stato un amore fatto di rapporti sinceri con le persone, di lunghe frequentazioni, Veduta-di-Napoli-e-del-Vesuvio-420di curiosità per gli aspetti della vita delle genti del Sud. Lucio era interessato alla vita del Sud. Aveva dei taccuini neri sui quali annotava sempre tutto. Era un curioso come il don Ferrante de I promessi sposi. Anche Leopardi amò Napoli, seppure di un amore bisbetico e insofferente, per un ambiente, soprattutto intellettuale, che considerava alquanto arruffato. Leopardi morì a Napoli, a 39 anni, più precisamente, a Villa delle Ginestre, a Torre del Greco, ospite del fidato amico Antonio Ranieri. A Napoli è, ancora oggi, la sua tomba. In quella villa aveva composto il suo testamento spirituale, quella La ginestra, che nel 2014, è stata protagonista della scena di chiusura del film di Mario Martone, Il giovane favoloso, dedicato proprio alla breve esistenza del poeta di Recanati. L’attore Elio Germano, che interpreta Leopardi, ne recita alcuni versi, mentre il Vesuvio, lo “sterminator Vesevo”, erutta. Pochi giorni prima di morire, a Torre, Leopardi aveva composto Il tramonto della Luna. Ancora una volta, la luna.

 

 

 

Attualità di Voltaire: note sul suo pensiero
e l’analisi di due racconti “contes”

 

di

Enrico Marco Cipollini

 

 

 

La figura più caratteristica del XVIII secolo francese è forse Francois Marie Arouet  anagrammato a suo modo Voltaire, il quale appartiene tanto alla filosofia che alla letteratura. Nasce a Parigi nel 1694 da famiglia borghese. Nel pensiero voltairiano, il problema etico equivale a problema politico. Voltaire, infatti… 

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François-Marie Arouet “Voltaire” (1694 – 1778)

 

 

Brevi ragguagli sul concetto di “coscienza” nella storia della filosofia Occidentale

 

PARTE I

 

LA COSCIENZA COME ANIMA 

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Secondo Platone (immagine a sinistra) la coscienza umana ha una funzione essenzialmente conoscitiva, collegata alla dottrina delle Idee, cardine della sua filosofia. Le Idee, infatti, oltre ad essere realtà ontologiche a sé stanti, immutabili ed eterne, che fungono da modello al Demiurgo per plasmare il mondo, ovvero forme con le quali è strutturata la realtà empirica, sono altresì presenti nella coscienza umana, come forme intellettuali, mediante le quali l’uomo comprende la dimensione sensibile dell’esistenza. La coscienza, quindi, nella dottrina platonica, corrisponde, sotto l’aspetto del mito, all’anima, la quale, avendo vissuto nell’Iperuranio, conserva in sé il ricordo delle Idee. Da ciò, scaturisce la concezione platonica della conoscenza innata, proprio perché già presente nell’anima e, quindi, nella coscienza di ogni essere umano (Fedone, Critone, Repubblica). Anche Aristotele identifica la coscienza con l’anima ma, a differenza di Platone, non strettamente nell’ambito della conoscenza, quanto piuttosto riguardo al concetto di tempo. Il filosofo di Stagira indaga sul rapporto tra il tempo e il movimento per far assumere ai due concetti una connotazione concreta. Il movimento è nel tempo e il tempo non può esistere senza movimento. Per Aristotele, infatti, il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e il poi”, intendendo per numero la funzione del contare, che non è possibile senza avere coscienza della successione numerica. Dato che l’esistenza del tempo è empiricamente ovvia e chiaramente riscontrabile, la sua percezione è un fatto di coscienza. Per coscienza, dunque, Aristotele intende l’anima, unico ente in grado di determinare un prima e un poi in relazione alla vita del singolo individuo (Fisica, De Anima).

LA COSCIENZA COME INTERIORITA’/RIFLESSIONE SU DI SE’, PER GIUNGERE A DIO

Il filosofo Plotino sviluppa il concetto di coscienza non come consapevolezza di qualsivoglia proprio stato interno, ma come campo privilegiato in cui si manifestano, nella loro evidenza, le verità più alte cui l’uomo può giungere, e la fonte, o il principio stesso, di tali verità: Dio. Indicando la coscienza come introspezione o ascolto interiore, egli adopera espressioni quali “ritorno a sé stesso”, “ritorno alla interiorità”, “riflessione su di sé”, contrapponendo costantemente questo atteggiamento proprio del saggio a quanti, invece, per la condotta della propria vita, si basano unicamente sulla conoscenza delle cose esterne (Enneadi).

LA COSCIENZA COME MORALE 

Simone_Martini_003Con il Cristianesimo, a cominciare da San Paolo e dai Padri della Chiesa, il concetto di coscienza viene ricondotto a quello di morale. Ne è esempio l’espressione di uso comune “voce della coscienza” la quale dovrebbe suggerire come comportarsi e quali siano i principi certi che, in ogni uomo, lo guiderebbero sulla retta via, dalla quale esso devia a causa della debolezza umana. E inoltre, non a caso, la precettistica cristiana prescrive l’esame di coscienza come pratica per rintracciare i propri errori morali. Per Sant’Agostino  (immagine a destra) la coscienza è il luogo interiore dove l’uomo cerca e trova Dio, la Mens superior inhaerens Deo (mente superiore insita in Dio). Dio è per l’uomo Essere e Verità, Trascendenza e Rivelazione, Padre e Logos. In quanto Verità, Dio rivela all’uomo ciò che è, in contrasto al falso che fa apparire o credere ciò che non è. Dio-Verità è l’essere che si rivela, che illumina la coscienza umana della sua luce e le fornisce la norma di ogni giudizio, la misura di ogni valutazione. Dio si rivela come trascendenza all’uomo che incessantemente e amorevolmente lo cerca nella profondità del suo io, la coscienza (Confessioni, De vera religione). San Tommaso d’Aquino intende la coscienza sempre ed esclusivamente come coscienza morale. La sua stessa definizione (scienza con l’altro), secondo l’Aquinate, rivela l’ambito di una ricerca volta a definire la coscienza morale come un’applicazione della scienza morale al comportamento umano, al fine di valutarlo e direzionarlo. La coscienza è un atto della persona, che investe sia la sfera intelligibile che quella razionale. Essa applica ai casi concreti della vita l’oggettività e l’universalità della legge a cui si riferisce, la sinderesi, intesa come abito che contiene i precetti della legge naturale, i quali sono i primi principi delle azioni umane. La coscienza, pertanto, nella filosofia del Doctor Angelicus, non è un’altra facoltà (le facoltà sono due: intelletto e volontà), ma è l’uso della ragione per valutare cosa bisogna fare nella situazione concreta hic et nunc (qui e ora). Attraverso la ragione l’uomo applica le norme morali (Somma Teologica, De Veritate) .

LA COSCIENZA COME RAGIONE

Frans_Hals_-_Portret_van_René_DescartesCon l’età moderna, il concetto di coscienza si svincola da qualsiasi implicazione morale e religiosa e diviene il fulcro di tutte le dottrine cognitive e di tutti i processi di conoscenza. Il primo filosofo che muove la sua indagine in questo senso è Cartesio (immagine a sinistra). Egli ritiene che ogni operazione della mente sia accompagnata dalla coscienza di sentire o di ragionare, cioè dalla consapevolezza di possedere nella mente i propri contenuti mentali. La coscienza, per Cartesio, è la consapevolezza soggettiva di sentire e ragionare, perché il pensare implica il sapere di stare pensando. Le idee esistono nella mente, che ne ha coscienza, ma possono non corrispondere alla realtà esterna. Tra queste, ce n’è una privilegiata: l’idea del soggetto come mente, la quale è l’unica ad imporsi come certa vera e indubitabile (cogito ergo sum). Il cogito non è più l’atto pensante originario, da cui nasce il filosofare, ma diventa un pensato. L’evidenza o coscienza del cogito offre un metodo sicuro e infallibile di indagine razionale, tramite il quale poter distinguere il vero dal falso. Il cogito, inoltre, pone l’io esistente come  assolutamente indipendente dal corpo, non potendosi imporre come idea chiara se la mente pensante non fosse completamente separata dalla materia. La coscienza, nella filosofia cartesiana, è, dunque, equiparabile all’anima, intesa come res cogitans, distinta dal corpo, la res extensa (Principi di filosofia). Anche per il filosofo Gottfried Leibnitz il concetto di coscienza è strettamente legato ai processi della conoscenza. Questi, infatti, affida alla coscienza quella caratteristica che determina la capacità di percepire. Nell’uomo questa capacità è più elevata, rispetto agli altri esseri viventi, e le percezioni sono chiare e distinte. La loro consapevolezza o coscienza è l’appercezione, termine con il quale Leibnitz indica l’atto riflessivo attraverso cui l’uomo acquista consapevolezza, o coscienza, delle proprie percezioni, le quali, di per loro, potrebbero anche rimanere inavvertite. L’appercezione  è il fondamento ultimo della coscienza e dell’io (Monadologia).

LA COSCIENZA EMPIRICA 

John-Locke-painting-664x1024La concezione cartesiana di coscienza ispirò anche i filosofi dell’empirismo inglese. John Locke (immagine a destra) intese, infatti, la coscienza come la percezione di ciò che passa nella mente di un uomo, o meglio, le sue idee. Inoltre, egli, da empirista, rinviò alla coscienza ogni possibile esperienza delle cose esterne poiché, proprio da quelle, l’uomo forma dentro di sé le idee. La coscienza, quindi, è l’io che possiede e sviluppa tutte le attività mentali (Saggio sull’intelletto umano). George Berkeley  fu ancora più radicale di Locke, sostenendo che l’esistenza delle cose è in quanto queste sono percepite come esistenti (esse est percipi), ovvero quando si ha coscienza della loro esistenza, nonostante le sostanze materiali, le res extensae di Cartesio, siano soltanto proiezioni della mente cui dover rinunciare per attenersi unicamente alle pure sensazioni (Commentari filosofici).

 

Nel nome di Giordano Bruno, il diritto alla dignità

di

Maria Mantello

 

Il 17 febbraio del 1600, dopo lunghi anni di carcere e terribili violazioni alla sua dignità, Giordano Bruno veniva fatto bruciare vivo perché “eretico, pertinace, impenitente”, come recitava la condanna del tribunale della Santa Inquisizione Romana, presieduto personalmente dal papa. Nello stesso giorno del suo martirio anche i suoi libri venivano dati alle fiamme sul sagrato della basilica di S. Pietro… 

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